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è un romanzo dal ritmo serrato, roteante, come i tamburi che suonano spesso negli scenari dell'Africa raccontata da Bowles. L'autore ha la capacità di trovare il giusto equilibrio tra situazioni viscerali e introspettive, c'è un forte dinamismo della suspense, che stupisce in continuazione. E poi le atmosfere, i paesaggi, le sensazioni di questa terra in cui mai ci si sente a proprio agio, dove si è sempre stranieri e mai si riesce a trovare un appiglio della propria cultura, dove si ha sempre un po' di paura. Uno dei romanzi più densi che abbia mai letto, mi ha lasciato molto.
Concordo con il commento precedente, il libro lascia l'amaro in bocca perché quando finisci di leggerlo ti chiedi dove veramente l'autore voleva andare a parare; lo stile fresco delle prime pagine diventa via via sempre più ampolloso con riflessioni che talvolta sono difficili da capire. Le belle descrizioni del libro nelle ultime 70 pagine diventano molto elaborate ma appesantite dalla mancanza totale di discorsi diretti.
Personalmente l'ho trovato un po' sconclusionato. Non capisco tutto questo clamore attorno al libro. Ci sono alcuni spunti interessantissimi - parlo di alcune riflessioni trasposte nei dialoghi tra i personaggi - e la storia riesce anche ad avvincere e raramente si rende noiosa, tuttavia lascia un senso di delusione, di incompletezza che non mi fa gridare al capolavoro. Ho riscontrato un po' di quello stile cervellotico e fine a sé stesso che ho ritrovato in Kerouac (On the road, altro libro ingiustamente osannato): sarà un caso che ne è considerato un precursore? Menzione a parte per l'orrenda copertina scelta dall'editore, col beduino impegnato in un'anacronistica conversazione telefonica.
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