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Giulia Caminito dà voce a chi non l’ha mai avuta, e si misura così con il grande tema della fede, della speranza salvifica in un mondo migliore.
«Perché la terra resta, come si sa, mentre gli uomini vanno via.»
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Una fotografia dell’Italia centrale e rurale a cavallo tra ‘800 e ‘900, un bellissimo libro che si legge in due giorni
Scrittura potente, uno stile che mi ha suscitato emozioni che raramente si provano in eta' adulta. A volte fa bene ricordare che la Storia la fanno gli ultimi
Non mi ha convinto subito. Dietro il periodare poetico, mi sembrava di scorgere un che di anacolutico. Ma mi sbagliavo. Un romanzo sociale non può prescindere da un minimo di ricerca linguistica; le parole sono come le vene, drenano i tessuti del corpo e trasportano il sangue deossigenato al cuore: quelle dell'anarchia non possono essere e non sono come le altre. Il racconto è originale e fa luce sulla parte più negletta della storia dei movimenti popolari. E della stessa psicologia umana, che vede contrapposte, da un lato, le diverse e spesso lontanissime solitudini di chi si oppone alla corrente e, dall'altro, le ipocrite e durature alleanze di chi la corrente la determina o, per convenienza, la asseconda. Giulia Caminito non racconta però una storia corale, sulla scorta di quelle cui ci ha abituato, ad esempio, la letteratura antifascista. Non c'è, nel suo libro, un popolo in movimento. Non ci sono redenzioni collettive. Ci sono esistenze e isolate anarchie che combattono contro la violenza della storia. C'è il fragile ma resiliente Nicola, c'è il ferrigno ma romantico Lupo, suo fratello per caso; ci sono Nella e suor Clara e altri spiriti in lotta. Spiriti soli, che spesso perdono, altre volte si trovano, altre si salvano, lasciandosi dietro piccoli esempi che possiamo scegliere di ritenere insignificanti oppure rivoluzionari. Dipende da noi. Preziosissime, in questo senso, le parole riportate nella "Nota dell'autrice": "Vi invito quindi a non credere a tutto e a non pretendere dalle mie pagine che siano una testimonianza sicura, sono un'altra radice, una delle mie, con la quale provo a ricostruirmi e a crescere, perché in fondo sarò sempre Nicola Ceresa, quello che cade e ha paura, che ha la testa bacata e le mani che tremano, quello che guarda la nuca di Lupo ondeggiare mentre scende per le strade del paese". La radici, appunto. Ci vuole sempre un po' di anarchia affinché non ci trasformano nella solita, scontata e triste copia dell'albero della storia.
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