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Willo Welzenbach. La vita, gli scritti, le imprese - Eric S. Roberts - copertina
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Willo Welzenbach. La vita, gli scritti, le imprese - Eric S. Roberts - copertina

Descrizione


La vita e le scalate del famoso alpinista tedesco, conosciuto dai più per aver elaborato la "scala delle difficoltà" in roccia nota appunto con il suo nome, corredata di alcuni scritti autografi.
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Dettagli

1992
1 gennaio 1992
272 p., Brossura
9788878081048

Voce della critica

TENDERINI, MIRELLA, Gary Hemming, L'Arciere-Vivalda, 1992
ROBERTS, ERIC, Willo Welzenbach, L'Arciere-Vivalda, 1992
recensione di Carlini, F., L'Indice 1993, n. 5

Willo e Gary: ecco una collana di piccoli libri, ognuno dedicato alla vita di un grande alpinista. In queste due uscite di fine 1992 si raccontano la vita e le imprese di Gary Hemming, americano, vissuto in anni recenti (tra il 1935 e il 1969) e di Willo Welzenbach, tedesco, morto sul Nanga Parbat nel 1934, a trentatré anni d'età. Li separano tre decadi, ma sembrano un abisso. Eppure entrambi furono pionieri. Welzenbach è l'esponente più noto della scuola alpinistica di Monaco che, a metà degli anni venti, provocò un balzo in avanti nel modo di intendere l'andar per Alpi. Come tale suscitò anche polemiche vivacissime (e persino astiose) da parte di altri ambienti alpinistici, quelli inglesi in particolare.
Era questione di tecniche e di ideologie. Dal punto di vista tecnico a Welzenbach e ai suoi compagni di scalate si deve l'introduzione del chiodo da ghiaccio, un lungo punteruolo sagomato di una ventina di centimetri, destinato a garantire un minimo di sicurezza nei passaggi più ripidi e, anche, a consentire alcune delle manovre di corda (pendoli, traversate in contrapposizione) già sperimentate con successo sulla roccia. L'inaugurazione avvenne nel 1924 durante la salita al Grosses Wiesbachhorn.
Grazie a chiodi e corda il livello delle difficoltà superabili su ghiaccio si alzò vistosamente, anche se i ramponi avevano ancora 10 punte anziché 12 e le piccozze erano lunghe e poco maneggevoli. Per non dire degli scarponi chiodati, che dovevano essere sostituiti (in parete) con leggere pedule di feltro, quando occorreva affrontare passaggi di roccia più impegnativi; durante una prima salita nell'Oberland bernese furono addirittura necessari dodici cambi di calzature!
Willo era appunto uno specialista di grandi vie di ghiaccio e di misto (roccia, ghiaccio e neve). Percorrere questi itinerari richiede alcuni requisiti che pochissimi dei moderni climbers in tuta acrilica posseggono: grande conoscenza della montagna, del tempo e delle condizioni dei pendii; una tecnica raffinata e una grande preparazione atletica per poter letteralmente correre su queste vie, prima che il sole troppo alto faccia cadere scariche e seracchi e prima che il tempo, così mutevole in alta montagna, intrappoli gli scalatori ancora in parete. La carriera di Welzenbach del resto, è tanto ricca di successi quanto di saggi abbandoni. Molte delle sue vie, infatti, erano già così cariche di pericoli oggettivi che sarebbe stata pura incoscienza spingere ancora oltre la sfida alla fortuna.
Tuttavia proprio di fanatica incoscienza venne accusato più volte dagli alpinisti rivali: a proposito della prima salita della parete nord della Dent d'Hérens, E.L. Strutt, direttore dell'"Alpine Journal", la iscriveva tra le "varianti sciocche e folli opera di senza guida scriteriati su pareti continuamente spazzate da scariche di sassi e ghiaccio". E quando nel 1931 Schmidt e Erti risalirono la nord dell'Ortles, strappandola per un soffio a Welzenbach, la stessa rivista si rifiutò financo di pubblicare i nomi dei primi salitori, scrivendo: "omettiamo deliberatamente nome e nazionalità di questi desperados, come ogni dettaglio sulla loro azione irresponsabile".
C'era dell'invidia in tutto ciò, ma va detto che anche gli alpinisti tedeschi non scherzavano. Gli stessi scritti di Welzenbach che intercalano la biografia, curata dall'alpinista inglese Eric Roberts, contengono un certo numero di espressioni belliche ("il nostro motto era combattere per vincere") e confermano una certa dose di ideologia da superuomini. Welzenbach fu tra i meno contagiati da tale morbo, ma fin a morire in una spedizione himalaiana assai nazionalista ("La conquista della cima è attesa per la gloria della Germania" dichiarò il ministro hitleriano dello sport). Un'impresa gestita assurdamente, con un eccesso di gigantismo e la presunzione di realizzare sulla vetta "una sorta di pellegrinaggio" di alpinisti. Si chiuse con un bilancio tragico, dieci morti, tra i quali lo stesso Welzenbach, per assideramento e sfinimento.
Alla ricostruzione della vita di Gary Hemming, attraverso i documenti e le testimonianze di chi lo conobbe ha lavorato invece l'alpinista-giornalista Mirella Tenderini. Non è stata una ricerca semplice perché ancora troppo bruciante è la sua morte improvvisa, con un colpo di pistola alla testa, nella splendida riserva naturale dei Grand Tetons nel Wyoming, forse l'unico punto fisso della sua vita vagabonda. Californiano, aduso alle grandi pareti di granito del Capitan, dove l'alpinismo moderno cambiò volto e pelle, e tuttavia anche eccellente salitore di alcune delle più belle vie del Bianco.
Fu un modello, anche di comportamento, per una generazione di alpinisti sessantottini, anche se lui il '68 non lo visse, impegnato in un deludente viaggio sentimentale in Svezia. Un modello, perché accoppiava le nuove tecniche californiane a una salutare insofferenza per riti e codici di un alpinismo ossificato. Irregolare e stracciato nel vestire. Pieno di problemi con se stesso e con l'altro sesso, fragile dentro, forse mai cresciuto del tutto. Vagabondo senza patria, eppure così profondamente americano, nel senso migliore del termine (il diritto alla "ricerca della felicità" garantito nella costituzione americana - sosteneva - è il principio più libertario e più civile di tutti i tempi). La ricostruzione della sua vita, ottenuta attraverso la lettura di molti documenti originali e lunghi colloqui con i suoi amici più stretti, lascia - forse giustamente - molto di irrisolto. Forse troppo poco tempo è passato da quel colpo di pistola notturno perché una vita si possa capire. Per questo appare francamente perentorio (e scritto col cattivo buon senso degli anni ottanta) il giudizio che Enrico Camanni sovrappone alla ricerca di Tenderini: "distratti e solitari, fragili e incostanti, eroi per un giorno e sconfitti per una vita".

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