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Walter Lippmann
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2011
1 gennaio 2011
9788884194831

Voce della critica

L'accesso ad archivi viene talvolta presentato come condizione indispensabile per una seria ricerca storica. Il presente lavoro è invece un felice esempio, nel caso ancora servisse, di quanto possa essere feconda semplicemente l'attenta analisi dei testi, anche quando non si tratta di fonti inedite, se condotta in una duplice prospettiva: per un verso ponendoli in una costante tensione con il loro contesto storico, per altro tentando di fare affiorare da quel contesto temi e problemi che oltrepassano le circoscritte barriere temporali. Francesco Regalzi propone infatti una biografia intellettuale di Walter Lippmann che, se da un lato inserisce lo scrittore statunitense in un fitto dialogo con il proprio tempo, dall'altro mette in luce interrogativi e nessi concettuali che in un certo senso "vincono" il tempo e conservano la loro rilevanza per il lettore odierno.
Esponente di punta del progressismo americano di primo Novecento, autore di un capolavoro del pensiero politico come L'opinione pubblica (1922), coniatore infine, nel 1947, di una delle definizioni più efficaci, nella storia, per racchiudere un'intera epoca, ossia "guerra fredda", Lippmann è però molto di più. Nell'arco di uno straordinario tragitto intellettuale, egli ha messo a fuoco una visione realistica e critica della democrazia che consente a tutti gli effetti di affiancare la sua riflessione politica a quella di "classici" del pensiero liberale come Madison e Tocqueville e ai grandi autori della teoria delle élite come Mosca e lo stesso Schumpeter.
Il libro è diviso in cinque parti. Nella prima viene ricostruito l'apprendistato politico-filosofico di Lippmann, esaminando le molteplici sollecitazioni culturali a cui l'autore si trovò sottoposto nel vivacissimo contesto progressista newyorkese di inizio secolo: dal socialismo fabiano al pragmatismo, dal giornalismo di denuncia dei cosiddetti muckrakers (i "rastrellatori di letame", come li etichettò Theodore Roosevelt) al radicalismo bohémien del Greenwich Village. Già in questa fase del suo percorso, Lippmann cominciò a maturare una considerazione disincantata della democrazia americana: nei due primi libri, A Preface to Politics (1913) e Drift and Mastery (1917), egli si soffermò sulla necessità di una nuova classe politica, capace di pianificare e innovare, ed espresse perplessità sull'eccesso di libertà "nelle mani di uomini impauriti e incapaci di utilizzarla". Pertanto, pur avendo aderito per un certo tempo agli obiettivi rivoluzionari del socialismo statunitense dell'epoca, più che dall'aspirazione a ideali quali la giustizia e l'uguaglianza Lippmann fu in realtà mosso, come sottolineato già dal suo autorevole biografo statunitense Ronald Steel, dal "fastidio" per il malgoverno della società.
Nella grande opera attorno a cui è imperniata la seconda parte del presente lavoro, L'opinione pubblica, dalle celebri osservazioni sugli "stereotipi" e sui limiti conoscitivi del medio cittadino-elettore, e dalla conseguente invocazione di una funzione di controllo sulla correttezza dell'informazione da parte degli "scienziati sociali", discendeva complessivamente una penetrante critica della teoria democratica, proseguita anche nel successivo The Phantom Public (1925). L'autore svuotava di ogni significato la nozione di "volontà popolare": "Noi dobbiamo abbandonare (…) l'idea che il popolo governi. Dobbiamo invece adottare la teoria secondo cui, tramite le occasionali mobilitazioni in veste di maggioranza, la gente sostiene o si oppone agli individui che attualmente governano". In tal modo Lippmann, come mette opportunamente in luce Regalzi, delineava una concezione della democrazia incentrata sull'inevitabilità del potere delle élite ed estranea a ogni illusoria prospettiva di partecipazione popolare alla formazione delle decisioni pubbliche, anticipando di quasi vent'anni la visione della democrazia come "selezione delle élite" elaborata da Joseph A. Schumpeter.
A metà degli anni trenta, però, e siamo alla terza parte del lavoro, di fronte al volto sempre più minaccioso dei fascismi e dello stalinismo, Lippmann, che in un primo momento aveva guardato con favore alla tendenza tecnocratica del New Deal rooseveltiano (descritto come un "collettivismo libero", in contrapposizione ai "collettivismi assoluti" europei), iniziò a considerare criticamente pure l'enorme crescita di poteri del governo federale statunitense. In un nuovo libro, The Good Society (1937), egli giudicò quindi la pianificazione, sulle orme dei due filosofi-economisti austriaci Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek, inapplicabile nella società complessa; presentò negativamente anche le forme "democratiche" di collettivismo, il cui risultato, a suo parere, sarebbe stato di mettere nelle mani di una maggioranza, per natura "instabile e transeunte", gli scopi e gli interessi della comunità, dando luogo così alla "dittatura di variabili e casuali maggioranze elettorali". Pur aggiornando, dunque, le sue risposte alle questioni del momento, l'autore riusciva, per molti versi, a non perdere la rotta della propria riflessione politica.
Gli scritti di Lippmann dal secondo dopoguerra agli anni sessanta, argomento della quarta e quinta parte del libro di Regalzi, si incentrarono maggiormente su temi di politica estera (sebbene questi fossero sempre stati ben presenti negli orizzonti dell'autore, in particolare da quando aveva collaborato con l'amministrazione Wilson alla preparazione dei "Quattordici punti"). Nella celebre polemica sulla teoria del containment, Lippmann, oltre a introdurre nel dibattito pubblico la nozione di "guerra fredda", si impegnò a estendere la visione realista della politica, quella stessa che aveva connotato fin dall'inizio la sua riflessione sulla democrazia, allo scenario delle relazioni internazionali, ragionando senza concessioni idealistiche e illusorie sull'equilibrio di potenza e sulla necessità di scendere a patti con i rivali, che comunque, con ciò, egli avvertiva, non avrebbero smesso di essere rivali. Vent'anni dopo, analogamente, in base a freddi calcoli di geopolitica e di interesse nazionale, avrebbe giudicato severamente la guerra nel Vietnam, ritenendo sbagliato per gli Stati Uniti un impegno di quella portata in una regione remota come il Sud-Est asiatico.
Nel frattempo lo sguardo disincantato sul mondo ispirava a Lippmann pure una riflessione complessiva sull'Occidente, con argomentazioni in realtà già sviluppate in un'opera del 1929, A Preface to Morals, in cui aveva preso in esame gli effetti corrosivi degli "acidi della modernità", poi aggiornate e rielaborate negli Essays in the Public Philosphy (1955). Attingendo a suggestioni spengleriane, l'autore profilava qui uno scenario di dissoluzione dei precedenti sistemi di certezze e di rassicurazioni, a partire da quelle religiose. Non a caso in quegli anni egli si era pure accostato, quasi come gli odierni "atei devoti", alla teologia cattolica, ammirandone il senso dell'ordine, in contrapposizione al secolarismo e alle sue ricadute sulle politiche e sulle società occidentali. Ancora una volta Lippmann focalizzava dunque la propria analisi sul funzionamento delle democrazie contemporanee, sul divario tra le masse, sedotte, mistificate e manovrate, e le élite del potere, e sul conseguente rischio che, di fronte a esecutivi deboli, il popolo elettore preferisse "un'autorità che promette di essere paterna, piuttosto che una libertà che rischia di essere fratricida".
Giovanni Borgognone

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