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Per definire l’opera di Luigi De Rosa, ora che ha un suo profilo oramai ben perfezionato, si può dire che la sua poesia è ‘spirito’ (dei luoghi attraversati, della donna amata, della bellezza costruita con i versi). Un vedere spirituale. Nel suo “saper essere distillato prezioso”. Nella sua diafana attesa che il fondo della vita si mostri, impercettibile come il crescere dell’erba in un chiuso giardino. Ma, allora, in seconda battuta, e più genericamente, che cos’è lo ‘spirito’? Kierkegaard inizia il suo “La malattia mortale” dicendo che lo spirito è l’io e che l’io è la relazione che unisce sé a sé – è la relazione che pone in relazione sé con sé. Per i Romantici e l’Idealismo l’io è relazione e riflessione. Entrambe le cose. L’io poetico derosiano non smette di essere essenzialmente questo legame tra finito e infinito, tra temporalità ed eternità, tra libertà individuale e necessità collettiva. Come in Kierkegaard e in quegli scrittori e poeti romantici che risvegliarono per primi una cultura europea comune, anche l’io poetico di De Rosa è ‘forzato a essere’ finito e però infinito, soggetto e però oggetto, eterno e insieme temporale (temporaneo); tuttavia senza potersi adattare al contesto di scelta di una parte al costo della rinuncia dell’altra. “Dov’è la casa del poeta?” Il poeta – in quanto io – vive, esiste nello spazio intermedio tra questi due assoluti, in sé, fra loro non relativi. Non potendoli avvicinare li armonizza nella sua percezione interiore: la casa del poeta è «in qualche parte dell’“anima” / come melopèa, ecolalìa struggente»; rimbalzo sonoro da un polo all’altro: una eco “che sempre versa e sempre si rinnova”. Kierkegaard si esprime dicendo che l’uomo è una sintesi di questi due poli ma non l’io in quanto tale – l’io è la relazione e non è implicato in essa. Con De Rosa potremmo parafrasare scrivendo che l’io è riflessione del suono, eco: ripetizione della parola che scava e diviene mano a mano spirito, distillato, ecolalìa.
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