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Il volto di Dio, il volto di Laura. La questione del ritratto. Petrarca: Rvf XVI, LXXVII, LXXVIII - Giorgio Bertone - copertina
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Il volto di Dio, il volto di Laura. La questione del ritratto. Petrarca: Rvf XVI, LXXVII, LXXVIII
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Il volto di Dio, il volto di Laura. La questione del ritratto. Petrarca: Rvf XVI, LXXVII, LXXVIII - Giorgio Bertone - copertina

Descrizione


In un passo famoso del Secretum Sant'Agostino rimprovera aspramente Francesco di essersi fatto eseguire da un illustre artista (Simone Martini) il ritratto di Laura, in modo da portare sempre con sé l'immagine dell'amata e avere occasione di infinite lacrime. La condanna del proprio comportamento peccaminoso nei riguardi del ritratto di Laura è una condanna anche del ritratto laico in quanto tale? Poteva una donna qualsiasi, - non una santa, non la Vergine -, essere trasposta in effige su una tavola o una pergamena? Qual è lo statuto del ritratto agli albori dell'epoca moderna? Qual è il rapporto tra ritratto e icona, tra volto dell'umano e volto del divino (la Veronica di "Movesi il vecchierel...")? Nel Canzoniere in generale e nei due sonetti di ringraziamento a Simone Martini per il ritratto ricevuto, non emerge, invece, alcuna condanna del ritratto. Solo una fenomenologia della "invenzione" (sonetto LXXVII) e della fruizione (sonetto LXXVIII): per la prima volta l'uomo moderno si confronta in una sfida aperta con la rappresentazione figurativa dell'amata e ne da conto preciso, entusiasta e drammatico. Con quali risultati? Con quali conseguenze e scoperte dentro l'archeologia della nostra cultura come civiltà dell'immagine?
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Dettagli

2008
7 febbraio 2008
73 p., Brossura
9788870186710

Voce della critica

Dei tratti di delineazione del volto di Beatrice (o, per dirla con Dante, della "sua labbia", recuperando la definizione all'interno del più noto dei sonetti vitanoveschi, Tanto gentile e tanto onesta pare), non abbiamo altra specificazione all'infuori del "color di perle" che, nella quarta strofe della canzone che nella Vita nuova inaugura le "rime della lode", Donne ch'avete intelletto d'amore, suggerisce la componente di maggior risalto del suo incarnato. Si potrebbero poi aggiungere gli "smeraldi" con cui Dante nel Purgatorio (XXXI, 116) designa gli occhi di Beatrice ("posto t'avem dinanzi a li smeraldi / onde Amor già ti trasse le sue armi"), anche se non è pacifico che il termini indichi propriamente gli "occhi rilucenti" della donna amata. Al contrario, dovizia di particolari e sovrabbondanza di dettagli caratterizzano la presentazione della donna prediletta da Boccaccio, Fiammetta, soprattutto nel suo presentarsi, come ninfa, al cospetto del rozzo pastore Ameto, in quel prosimetro pastorale e allegorico che è la Comedia delle ninfe fiorentine (forse meglio nota come Ninfale d'Ameto).
La sobrietà di indicazioni, da una parte, l'abbondanza di ragguagli dall'altra ("la candida fronte (…) aurei crini (…) due tenuissime ciglia (…) due occhi vaghi e ladri ne' loro movimenti (…) il non imbuto naso (…) le guance, non d'altro colore che latte (…) la vermigliuzza bocca", e così via), abbondanza di ragguagli che però altro non è che un rispetto per le convenzioni (e le sofistificazioni) della precettistica retorica, quali Boccaccio poteva apprendere dalla lettura delle descriptiones figurae nell'Ars versificatoria di Matthieu de Vendôme e della Poetria nova di Geoffroi de Vinsauf, per vie diverse, opposte (per oltranza di scorporamento, in un caso; per sovrabbondanza di letterarietà nell'altro), perseguono un processo di derealizzazione, entro il quale a suo modo (e con la sua specificità) si inserisce Petrarca: della sua Laura ricordiamo il "bel fianco" e "l'angelico seno" (Chiare, fresche et dolci acque), la "bella man" le cui cinque dita hanno, dantescamente, "di cinque perle orïental colore" (O bella man, che mi destringi 'l core), gli "occhi leggiadri dove Amor fa nido" (Perché la vita è breve), e, ancora, secondo l'incipit di un noto sonetto, "i capei d'oro" che sono "a l'aura sparsi".
Ma è di Petrarca il componimento lirico, un sonetto, che, andando oltre la diretta ed esplicita descrizione fisionomica (parcamente o diffusamente elaborata che essa sia), punta diretto all'inchiesta problematica sull'identità del volto della donna e sulla sua rappresentabilità, con effetti di immediata e originale espansione dell'indagine che allargano il cerchio dell'attenzione verso il rapporto che si instaura tra figura umana e icona divina. Il sonetto è Movesi il vecchierel canuto et bianco, su cui si sofferma in un'appassionata e stringente lettura Giorgio Bertone. Lettura consegnata a un libretto tanto esile quanto denso ed essenziale, che fin dal titolo e dal sottotitolo dichiara quello che contiene: il nesso tra ritratto e icona, tra volto dell'umano e volto del divino così come è legittimo indagare avvalendosi del sonetto chiave Movesi il vecchierel,con l'aggiunta di altri due sonetti tra di loro adiacenti, Per mirar Policleto a prova fiso e Quando giunse a Simon l'altro concetto, che fungono da utili glosse a quello posto al centro dell'analisi e che sono rivelatori, con la loro assunzione a necessario strumento di interpretazione di Movesi il vecchierel (e si poteva aggiungere anche il sonetto XV, quello che immediatamente lo precede, Io mi rivolgo indietro a ciascun passo, per una convergenza di somiglianze e dissomiglianze che sancisce una solidarietà tra i due testi), di come Bertone, in modo diretto ed essenziale ma senza mai cercare scorciatoie, si impegni in un serrato corpo a corpo con la realtà testuale, considerata non nel blocco e nella griglia della sua unicità, ma aperta alla rete di relazioni e connessioni che nel corpus del Canzoniere viene a stabilirsi.
Argutamente (ma anche appropriatamente) collocato Petrarca (e con il Petrarca, il suo sonetto in questione) tra il Concilio di Nicea e l'avvento della fotografia, Bertone si affida a una scrittura speculativa e investigatrice e a un procedimento metodologico di tipo problematico-interrogativo, penetrante e acutissimo, incorporando, si direbbe, nel tessuto della sua stessa esposizione, in funzione di premesse o di ulteriori, utilissime pezze di appoggio argomentative, l'ampio apparato di citazioni (dalla Bibbia a Roland Barthes, dagli Atti conciliari a Tolstoi, da sant'Agostino a De Sanctis), collocate a esergo dei capitoli e dei paragrafi: capitoli che sono tre, riconducibili peraltro a due, se si pensa che quello inaugurale, La questione del ritratto, occupa solo tre pagine, che sono tuttavia le pagine fondamentali del volumetto, dal momento che, per l'appunto, impostano il problema, la questione destinata a svilupparsi e articolarsi al ritmo serrato di domande e riflessioni continue, non univoche, frastagliate.
Movesi il vecchierel, dunque. Sonetto che, con il suo movimento narrativo, accompagna il racconto dell'itinerario del "vecchierel" puntualmente articolandolo nella scansione delle sue tappe: l'avvio (il "Movesi" dell'incipit), il faticoso cammino (il verso 4, inizio della seconda quartina: "indi trahendo poi l'antiquo fianco"), l'arrivo alla meta (il verso 9, primo della prima terzina: "et viene a Roma"). Ma all'improvviso e inaspettatamente, si direbbe, la procedura fondamentalmente narrativa vira, con mossa drasticamente disgiuntiva, dall'oggettività del racconto all'apertura del registro soggettivo imposta dall'affacciarsi della presenza dell'"io" e dalla sua risoluta sporgenza ("vo cerchand'io"), proprio quell'io che è la dominante e autentica marca di innovazione lirica promossa da Petrarca rispetto alla tradizione trobadorica, siciliana e stilnovistica che stava alle sue spalle. E, nella circostanza, l'io ellitticamente si colloca in parallelo e in comparazione con il "vecchierel" (e con il percorso da lui compiuto), prospettando la pressione ineludibile della "sembianza" non sacra o divina (come quella della Veronica), ma umana e mondana della donna amata.
Ancora una volta la suggestione di Laura non viene meno, neppure quando tematica, struttura e meccanismo compositivo del sonetto sembrerebbero orientare il testo verso altre direzioni, autorizzate a prescindere dall'intrusione della figura femminile; e se, solo per citare un esempio che pone come punto di riferimento un sonetto altrettanto celebre a conseguenza dell'ampia divulgazione scolastica, a suggello di La vita fugge, et non s'arresta una hora, la dominante componente tematica di ordine esistenziale fondata sul sentimento del tempo e sull'avvertenza dell'incombere della morte non resiste all'irrompere dell'immagine della donna amata che viene a occupare perentoriamente il verso conclusivo ("e i lumi bei, che mirar soglio, spenti"), ora, in Movesi il vecchierel, è l'intera terzina di chiusura del sonetto a essere occupata dall'incombente, irremovibile presenza di Laura. Ma sotto quale aspetto? Con quale significazione?
È certamente la terzina conclusiva ("così, lasso, talor vo cerchand'io, / donna, quanto è possibile, in altrui / la disiata vostra forma vera") a rappresentare il nodo critico più esposto del sonetto, rivelando ancora una volta, secondo una frequente prassi del poetare petrarchesco, come i dati dell'esperienza, le spinte sentimentali, le emozioni affettive si sottraggano a una ricaduta sentimentale e siano piuttosto apertura di un fronte speculativo e premesse e fondamento di un discorso teorico che, nella fattispecie del nostro sonetto (l'ha visto e spiegato molto bene Bertone), si manifesta nel riscontro di una teoresi atta a "introdurre nelle pieghe della vicenda d'amore e d'errore, anzi, intrecciare ad essa pure le novità delle acquisizioni culturali, impregnare l'arduo amore per Laura delle risultanze dell'arduo riflettere sulle idee e, qui, sull'arte".
La parola mai pronunciata nel sonetto, il "volto", è in verità l'argomento centrale del sonetto stesso, con il fardello delle risonanze e conseguenze che il gioco delle corrispondenze binarie (vecchierello-poeta; Veronica-altre donne; Cristo-Laura) impone. La stringente logica dei parallelismi (in particolare l'ultimo) autorizza Bertone a tenere per fermo che "indagine e discorso sul volto e ritratto di Laura non possono darsi se non attraverso la connessione con il lungo discorso e dibattito storico teologico sulla venerazione del volto divino". Vero è che la direzione verso la quale si orienta Petrarca non è quella di un'escatologia d'impronta metafisica, bensì estetica, tutta intesa e concentrata com'è a ritrovare, per quanto è possibile, "in altrui / la disiata vostra forma vera". L'atto di concentrazione che Petrarca riserva al suo comportamento relega a mero fenomeno memoriale il topos dell'effigie della donna tenuta come dipinta dentro al cuore (si pensi, ad esempio, a Giacomo da Lentini e ai versi di Meravigliosamente: "Avendo gran disio / dipinsi una pintura, / bella, voi somigliante, / e quando voi non vio / guardo 'n quella figura, / par ch'eo v'aggia davante") e recide ogni legame con la tradizione stilnovistica (in particolare con Cavalcanti e il suo sonetto Una giovane donna di Tolosa e con Cino da Pistoia e il sonetto responsivo all'Alighieri, Poi ch'i' fui, Dante, dal mio natal sito), entro la quale va pure inserito Dante, segnatamente il Dante della "donna pietosa", il cui episodio, all'interno della Vita nuova, scaturiva proprio da una dichiarazione di rassomiglianza nell'aspetto tra la "gentile" dona che è la "donna pietosa" e la "gentilissima" che è Beatrice.
Lo scarto impresso da Petrarca, con il suo gesto di forte personalizzazione di temi e motivi tradizionali, è netto: non ci si trova più di fronte a una comportamentistica amorosa che autorizzava la "pluralità della conoscenza di donne in rapporto all'unicità dell'amata", perché non più di "fisionomica" si tratta, ma di atto intellettuale che interviene entro le dinamiche del desiderio. Petrarca, ha scritto in un passaggio di una lettura del sonetto XVI uno dei maggiori studiosi del poeta, Enrico Fenzi, "cancella ogni traccia meramente fattuale (…) e trasforma la situazione in una condizione spirituale permanente, dominata dal fantasma dell'irraggiungibile bellezza e dell'amore inappagato" (nel volume Saggi petrarcheschi,Cadmo, 2003). Il faticoso assecondamento del "desio" del "vecchierel" ha il suo correlativo riflesso nell'atteggiamento affannato ("lasso") del poeta che, pur conscio della limitatezza degli esiti cui potrà approdare la sua tensione, tale tensione alimenta per cercare "in altrui", nelle altre donne, nei volti delle altre donne, "la disiata (…) forma vera" di Laura, entro un asse conoscitivo che, decollando dalla fondazione fenomenologia di partenza, assurge all'essenza. Dal "disiato riso" che, sensualmente, diventa "bocca" a conclusione del racconto che Francesca espone a Dante per rendere ragione del peccato suo e di Paolo, si transita, con evidente distacco dalla cronaca umana e terrena, a una "disiata forma vera", a un'astrazione, che è il portato di quella "intellettualizzazione della vista", individuata da Bertone con felice formula, come procedura conoscitiva e a un tempo estetica adottata dal poeta.
Le conseguenze dell'atto di "disegnare con la mente", mentre sottraggono l'operazione portata a compimento da Petrarca dalla più riduttiva modalità di iscrizione di un'esperienza individuale nell'ordine delle generalità, determinano una rifondazione dell'idea di ritratto, con superamento della mimesis in nome di una concettualizzazione e spiritualizzazione resa manifesta dal sonetto LXXVII, Per mirar Policleto a prova fiso, cui si associa quello immediatamente successivo, il LXXVIII, Quando giunse a Simon l'alto concetto: sonetti nei quali la celebrazione del genio artistico di Simone Martini, cui si deve, secondo quanto annota nel suo commento petrarchesco Gianfranco Contini, "una miniatura o forse un disegno acquarellato" rappresentante il ritratto di Laura, fa tutt'uno (sonetto LXXVII) con la conferma della nozione di bellezza artistica come risultato di un processo creativo che scaturisce da un appropriamento mentale dell'oggetto figurato (la "disiata forma vera") e prefigura gli effetti (nel sonetto LXXVIII) di pulsione a un adempimento non privo di riscontri sensoriali che l'astrazione reclama.
Discostandosi dalla posizione "iconoscettica" di sant'Agostino, Petrarca esalta un'"immagine verbale" che però non è separata da quella iconica, se è vero, come è vero, che, stante la similarità tra lo "stile", che è la verghetta adoperata da Simone per dare figura all'"alto concetto" (sonetto LXXVIII), e il "vario stile" (sonetto I), che è quello della scrittura lirica del poeta, "anche nella strumentazione può sussistere equivalenza tra arte liberale (pittura) e poesia". Alla significazione estetica, il ritratto aggiunge una valenza etica, poiché la cupiditas è riscattata e viene sublimata nel "paradiso delle forme pure e degli archetipi voluti da Dio"; conseguenza ultima e risolutiva è che il "superamento della cupiditas determina la fondazione del ritratto".
Luigi Surdich

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