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scheda di Pellini, P., L'Indice 1997, n. 9
Con questa edizione Gorni innova in misura decisiva il testo del primo capolavoro di Dante, facendo le pulci, nientemeno, al padre della moderna filologia italiana, quel Michele Barbi che nel lontano 1907, approntando un'esemplare edizione proprio della "Vita nova", aveva offerto un modello agli studi di critica del testo nel nostro paese.
Le differenze rispetto alla "vulgata" di Barbi, puntualmente giustificate in una corposa "Nota al testo", svariano dal minuto intervento grafico o linguistico alla restaurazione di lezioni che migliorano il senso di un intero contesto. Alcune novità sono macroscopiche: la "Vita nova", che per Barbi era "nuova", davvero cambia volto, a cominciare appunto dal titolo - passando per la divisione in capitoli - o, meglio, in paragrafi: 42 per Barbi, 31 secondo Gorni, fedele alle partizioni suggerite dalle fonti manoscritte, che conferiscono "un rilievo grafico spiccatissimo" alla maiuscola iniziale di ogni paragrafo. Sempre in ossequio ai testimoni più autorevoli (e anche in questo campo si registra la promozione di un codice, il Martelli, "diligente e arcaico", trascurato da Barbi, propenso a seguire piuttosto il Chigiano), risulta nell'edizione Gorni meno arcaizzante la veste linguistica, ma più spesso latineggiante quella grafica.
La "Vita nova", decisamente, è "il libro del nove": a nove anni Dante vede per la prima volta Beatrice, dopo nove anni, quando il poeta ne ha diciotto, si verifica il secondo, decisivo incontro. Multiplo di tre (la Trinità), il nove ha evidenti implicazioni sacrali: la critica cosiddetta numerologica non ha esitato a rintracciare simmetrie ternarie e novenarie, più o meno fantasiose, anche laddove il testo non fornisce indicazioni certe. Come è ovvio, la scansione dei paragrafi ha offerto un terreno particolarmente affascinante, e insidioso, per simili illazioni: con sobria eleganza, Gorni tralascia quasi di sottolineare come la divisione in 31 paragrafi vanifichi gli sforzi decennali dei numerologi; mentre, di suo, non rinuncia a esplorare, con acume e prudenza al tempo stesso, la possibilità di nuove simmetrie novenarie.
Un testo trasformato, dunque: eppure, questa di Gorni non è un'edizione critica. Il curatore non ha censito tutta la tradizione manoscritta, non ha elaborato un nuovo stemma dei codici: si è affidato per tutto questo alle ricerche di Barbi. Una scelta al tempo stesso umile e coraggiosa: perché riconosce da un lato il valore insostituibile dell'enorme lavoro svolto dall'illustre predecessore; e contesta implicitamente, dall'altro, il mito dell'edizione perfetta, definitiva, totalizzante. Ogni edizione reca i segni del tempo, risponde alle domande che un preciso contesto culturale rivolge ai classici del passato. Per questo, Gorni non si è limitato a offrire un testo migliore: si è impegnato in un'opera di commento e di interpretazione capace di interrogare da angolature nuove il prosimetro dantesco.
Un apparato di note ricco ma non esorbitante chiarisce la lettera del testo e i richiami intertestuali; un "Saggio di lettura paragrafo per paragrafo", particolarmente originale, si iscrive nella tradizione "francese" dell'"explication de textes", sempre aderente al testo, ma decisamente interpretativa. Soprattutto, il saggio premesso al volume colloca la "Vita nova" all'interno dell'opera di Dante, come "profezia di una profezia", annuncio per certi versi acerbo, ma a tratti genialmente innovativo, della futura "Commedia". Gorni - altro merito spiccato - non esita di fronte al giudizio di valore: riconosce nelle cosiddette "petrose", e non in area stilnovista, i vertici, non solo stilistici, della nostra poesia duecentesca; addita quanto di "caduco" appesantisce il "libello" dantesco (le "divisioni", partizioni un po' pedantesche che l'autore pospone a parecchie liriche); più radicalmente, revoca in dubbio la tenuta del classico, ne denuncia la "modesta virtù evocativa": un libro intellettualistico e aristocratico, che stenta ad agire sull'immaginario moderno. Il fascino della vicenda narrata e la riuscita delle liriche non riscattano "la varietà non composta, né pienamente dominata, dei registri stilistici". Affermazioni che faranno discutere.
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