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Vita coniugale - David Vogel - copertina
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Vita coniugale

Descrizione


Un incontro fortuito in un caffè, nella Vienna degli anni Venti. Una giovane donna che attira «come il presentimento di un disastro». E luomo che le si avvicina sente in sé quel «tocco di pena di cui il nostro spirito ha bisogno per sussistere». Da allora, senza saperlo, sarà legato a lei come la sua ombra. Così comincia una storia esasperata, crudele, fatta di sottili umiliazioni e invadente degradazione. Vogel raffigura mirabilmente quella vasta terra dove i rapporti amorosi si fondano più sulla tortura che sul piacere. E insieme ha il dono della notazione penetrante nel presentarci il mondo esterno, quella Vienna che lentamente si decompone come la storia dei due protagonisti.
Tale è la complicazione, la precisione e quasi la presenza allucinatoria dei mille tocchi feroci con i quali procede la narrazione che a tratti ci si domanda: è questa soltanto la storia di un amore infelice e irragionevole? O cè qualcosa di più? O forse cè un rapporto fra questa perversione erotica e il fatto che Vogel scrive una storia totalmente viennese in una lingua, lebraico, che proprio in quegli anni (il libro è del 1928-1929) veniva appena sbendata, dopo secoli di immobilità? E questo fatto della lingua non indica anchesso qualcosaltro: il conflitto corrosivo nella vita di un ebreo che vuole disperatamente lassimilazione e al tempo stesso non riesce a concepirla se non come tortura e progressivo spossessamento? Non cè ovviamente risposta chiara a tutto questo nel romanzo e ciò ne conferma il fascino. Eppure tutto questo agisce nelle sue fibre e dà a ogni evento raccontato, anche il più infimo, uno spessore molto maggiore, oltre che una risonanza sinistra che aleggia su tutta la vicenda come una premonizione. Vita coniugale apparve in una prima versione nel 1929 a Tel Aviv. La seconda versione, qui tradotta, è stata pubblicata postuma nel 1986.
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Dettagli

1991
3 giugno 1991
578 p.
9788845908453

Voce della critica

WINDER, LUDWIG, L'organo ebraico, Aktis, 1990
VOGEL, DAVID, Vita coniugale, Adelphi, 1991
recensione di Cerrato, O., L'Indice 1992, n. 4

Praga e Vienna sono negli anni venti i due poli di un movimento culturale di straordinaria vivacità, animato da una congerie etnica quanto mai variegata, dove spiccano, prime vittime della crisi esistenziale del dopoguerra, gli "ebrei occidentali" della nuova generazione, tragicamente lacerati tra il desiderio di assimilazione al mondo circostante e il forte richiamo del "loro" popolo, della purezza di quei caffettani lisi e pieni di cimici disprezzati da chi ormai si è arricchito ed imborghesito. L'accusa che essi lanciano alla società capitalistica, colpevole di aver cancellato la loro unità spirituale, non è disgiunta dall'oscura consapevolezza di una colpa personale, che pretende dura espiazione. Si spiega forse così il "Leitmotiv" di questi due avvincenti romanzi, un masochismo tradizionalmente ebraico, sconosciuto al lettore profano, che ne resta a un tempo esasperato e affascinato. Al di là di questo denominatore comune, si avvertono profondamente nei due libri gli influssi degli ambienti diversi in cui sono nati. Lo stile asciutto e scarno ma vibrante di ispirazione visionaria che caratterizza "L'organo ebraico", simile a un salmodiare biblico acceso qua e là dai forti colori espressionistici, rivela l'influenza di Kafka e del circolo di Praga a cui Winder apparteneva. Dalla nobile Vienna decadente e conservatrice nasce invece "Vita coniugale", un romanzo decisamente tradizionale negli schemi narrativi, che ci rivela in Vogel un valido concorrente di Schnitzler, come lui profondo conoscitore della psicologia umana e abile pittore d'ambiente, capace di ricreare con viva immediatezza l'atmosfera della sua città.
Vale per i due autori ciò che Mittner disse di Kafka, e cioè che gli scudisci con cui egli si frusta sono la donna e la religione. Anche qui la donna diventa strumento di tortura e dunque mezzo di espiazione, perché sorgente di "quel tocco di pena di cui il nostro spirito ha bisogno per esistere", come dice Rudolf Gordweil alla baronessa Thea von Takko, la donna che fatalmente lo attrae per distruggerlo in quella relazione satanica che Vogel, non senza ironia, ha chiamato "Vita coniugale".
La religione, pericolosamente minata alle radici, è il tema di fondo dell'opera di Winder. L'"organo", proprio delle chiese cristiane, che diventa ebraico, è appunto il simbolo del costume occidentale entrato a violare la sinagoga, metafora della perdita di purezza che perseguita il protagonista come una colpa incancellabile. Il giovane Albert, figlio di un rabbino saggio e troppo severo, fin dalla nascita è in conflitto con il padre, che lo sente estraneo mentre vorrebbe e dovrebbe esserne orgoglioso. Adolescente, Albert si allontana decisamente dalla famiglia e s'immerge nell'abisso della perdizione. Quindi tormentato dalla colpa, torna al capezzale del padre morente, ed accetta infine di diventarne il successore, proprio lui che aveva dichiarato: "non diventerò mai rabbino", lui che aveva strappato le lettere ammonitorie del padre perché "voleva essere il primo e l'ultimo di una nuova stirpe, senza nome, senza fede e senza disciplina, voleva fare razza a sé, per ridere di tutti gli altri, per disonorarli, per rifiutarli". E come nella sua discesa verso il peccato era stato accompagnato da una donna, dalla splendida Etelka tutta "biondo e blu", così sente che il percorso di espiazione deve passare attraverso un'altra donna, questa volta la grigia e fredda Malvine, quella "racchia spilungona" nel cui corpo fisicamente ripugnante egli vede "un coltello tagliente di Dio".
Esiste un legame profondo tra la donna e la religione, un legame fatto di colpa (perché il Talmud vieta di godere della bellezza della donna) ma anche di redenzione, in quanto dalla donna nasce il figlio, il segno della continuazione della stirpe d'Israele. In entrambi i romanzi il figlio, atteso e desiderato dal padre con un'ansia quasi morbosa, occupa una posizione assolutamente centrale. Eppure il bambino di Albert morirà ancor prima di vedere la luce, e quello di Gordweil (che beffardamente neppure è figlio suo) non sopravviverà che pochi mesi. Aleggia forse in questa disgrazia una premonizione sinistra dei tragici eventi storici imminenti? Certo, benché nei due libri gli accenni all'antisemitismo siano scarsi e marginali, l'analisi della società non lascia comunque spazio all'ottimismo. Il sano moralismo di Winder si scaglia duramente contro la rigida intolleranza che nasce dall'ipocrisia di una società attenta solo a salvare le apparenze, come confessa apertamente il capo della comunità Blum al giovane Albert: "Io ammetto di fronte a lei di essere un libero pensatore, faccio il capo della comunità solo per passatempo. Mi hanno eletto grazie alla mia ricchezza, non per la mia devozione. Si recita la commedia di fronte alla gente e tutto è tranquillo, se ne ricordi". Se nella campagna regna l'ipocrisia, la città è abitata dalla perversione, condensata in quel "Paradiso", cattedrale dei piaceri carnali, dove Albert lavora come portiere e che si trova, naturalmente, nella Himmelpfortgasse (via della porta celeste).
Non migliore è la Vienna di Vogel in cui la folla di personaggi disorientati, vaganti con oziosa inquietudine dalle strade buie ai caffè fumosi, sembra preannunciare, con Kraus, "l'apocalissi dell'umanità". Tuttavia Vogel non leva la sferza del moralista contro i suoi contemporanei e ben lontano dall'ascetismo di Winder, questo libro si direbbe a prima vista immerso nella mondanità. Proprio per questo ci sorprende non poco la lingua in cui è scritto, l'ebraico: una lingua artificiale anche per l'autore stesso, che la insegnava ma certo non la usava correntemente, e per di più immobile da secoli nella sua rigidità ieratica e dunque ben lontana dalla spumeggiante e frivola società viennese (come sottolinea anche Gaio Sciloni, che è traduttore attento e brillante). In questa scelta inconsueta si cela l'estremo tentativo di recuperare quel mondo dei padri ormai irrimediabilmente perduto. Anche stilisticamente il libro sembra aggrapparsi a moduli ottocenteschi spesso non lontani dal "Kitsch", come se il "mondo di ieri" si potesse fissare nei suoi contorni un po' floreali solo in questa lingua che allora appena emergeva dalle bende del sepolcro (come ricorda Sciloni).
Come in Kafka, anche in Vogel l'ebraismo appare dissimulato, trasfigurato in una serie di simboli legati al comportamento del protagonista. Così l'innata propensione di Gordweil per la tristezza, cui fin dall'inizio Thea contrappone una sfrenata gioia di vivere, diventa ben presto masochistica volontà e brama di sofferenza. All'eroismo sprezzante dei forti, rappresentato da Thea, egli contrappone un eroismo della debolezza, passivo, rassegnato, ma non meno tenace, capace di sopportare ogni dolore, perché sorretto dalla certezza atavica di rimanere comunque un eletto. Quasi grottesche sembrano al lettore quelle situazioni in cui egli, tradito, cacciato di casa, zimbello della donna che ama, si dichiara fortunato confrontandosi con la gente che incontra. E un sentimento di rabbia impotente provoca il suo abbandonarsi alla rovina, incurante dei consigli di chi davvero lo ama, vittima volontaria della ferocia satanica, simile in questo al suo autore, che nel 1944 si consegn• spontaneamente ai nazisti. C'è chi ha voluto vedere in questa vicenda una singolare allegoria dell'atteggiamento passivo e rassegnato degli ebrei nel periodo nazista. Ma il finale a sorpresa del romanzo sembra per un attimo modificare la situazione. Nell'animo dell'uomo si fa strada lentamente l'attesa (anch'essa ebraica) di qualcosa che deve succedere: "E Gordweil sentì confusamente che presto sarebbe successo qualcosa fra lui e lei, nessuna forza al mondo avrebbe potuto impedire ciò che stava per succedere. E lui aspettava. Aspettava, senza sapere che cosa". Ciò che accadrà, la ribellione da tanto tempo auspicata dell'uomo annientato dalla crudeltà della donna, arriva però troppo tardi, è vendetta e non più giustizia, compiuta da un uomo che ha aspettato di vedersi chiudere ogni via d'uscita prima di liberarsi dalle sue catene. Non meno masochistica risulta la "liberazione" di Albert, cioè il perenne proseguimento della penitenza, che lo porta a vagare ramingo per il mondo, preda di "un'innocua follia", sostenuto dalla consolazione di aver raggiunto la sua meta: potersi piegare pieno d'amore sul dolore degli uomini.
Vengono in mente le amare parole di Joseph Roth, che nel 1937 scriveva nella seconda prefazione al suo libro "Ebrei erranti": "Gli ebrei tedeschi hanno una doppia sventura: non solo subiscono le umiliazioni, ma le sopportano di buon grado. La capacità di sopportarle e la loro sventura più grande".

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