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In principio, si potrebbe dire, erano ancora Hobbes e Locke. Due giudizi sembrano infatti correre sotterranei alle percezioni della violenza maturate in epoca moderna. Il primo, di carattere più pessimistico, ritiene che l'ordine necessario al vivere in società non possa essere garantito senza la minaccia e l'uso della violenza coercitiva: si tratta della linea interpretativa che va da Hobbes a Schmitt, passando per le teorie naturaliste e psicoanalitiche dell'aggressività fino alle teorie antropologiche sul rito di Girard. Il secondo, di carattere più ottimistico, afferma invece che – se non altro per ragioni pratiche e di buon senso – gli uomini finiscono sempre con il preferire la negoziazione e l'accordo pacifico rispetto alla violenza reciproca: è l'ampia corrente di pensiero che da Locke e Kant giunge fino ad autori contemporanei come Rawls, Bobbio o Habermas. É attorno al tema del potere che si raccoglie poi un'altra famiglia delle interpretazioni "critiche" della violenza. A partire da Marx, passando per Nietzsche, Weber e Foucault, la violenza si configura come una modalità della relazione presente nella vita sociale quotidiana e coinvolge il problema della giustizia: da un lato, la violenza può infatti essere considerata un mezzo legittimo di liberazione rivoluzionaria (Sartre, Fanon); dall'altro, la violenza è insita nel diritto e quindi non può essere considerata un mezzo per raggiungere la giustizia, situata al di là della legge e del linguaggio (Benjamin). Proprio sul problema del linguaggio si sono infine concentrate le interpretazioni post strutturaliste della violenza: per alcuni, come Derrida, la violenza è insita nel linguaggio e non è eliminabile in via definitiva, almeno nei suoi effetti simbolici. Per altri, come Apel o Habermas, il linguaggio è, invece, il medium delle relazioni sociali e pertanto la violenza può essere soppressa attraverso un'etica del discorso e della responsabilità perseguita in un approccio dialogico.
Francesco Cassata
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