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è il capolavoro di De Roberto in assoluto, e qui non sono d'accordo con Brancati - studente (nel senso che nella sua tesi di laurea menzionò i Processi Verbali - racconti veristi - quale vero capolavoro). mi fa piacere che chi mi ha preceduto nel commento abbia ricordato che senza I Vierè, probabilmente non ci sarebbe stato il Gattopardo, ma - aggiungo io - nemmeno altre opere che si sono esplicate sulla stessa scia (per ultimo, La lunga vita di Marianna Ucria della Maraini). Gli odori, i sapori, certi colori, sono eterni, mi senbra di potr dire. ma non dimentichiamoci che in Capuana, nel Marchese di Roccarvedina, era già emerso qualcosa, addirittura un personaggio non fa che ripetersi in questi autori, cito il personaggio un po' fuori di testa che si dedica alla trovatura, che in De Roberto lo vediamo consunto di salute e folle, e in Capuana e lampedusa non meno pittoreschi. personalmente in De Roberto mi è piaciuto il suo lessico colorito, il voler mettere tutto sullo stesso piano, giganteggiando un'ironia che si taglia con il coltello: Don Blasco - il gesuita - mi ha fatto ridere per settimane intere. ma il ritmo narrativo offre una tecnica superba, dove la sicilianità emerge dalla collocazione delle parole più che al gergale. la storia della letteratura è stata davvero ingiusta con De Roberto. De Roberto deve essere rivalutato, e i critici di oggi, dovrebbero rivalutarlo, sennò che si taccia per sempre, mi preme di dire. mi dispiace che stiano realizzando un film sui Vicerè, e lo dico proprio perché De Roberto, i Vicerè, deve necessarimente essere scoperto sui libri, non al cinema. chi vedrà il film senza leggersi un capolavoro letterario, è solo un pigro.
Comincia con il trambusto provocato dalla morte della vecchia e autoritaria principessa Teresa Uzeda il romanzo che seguirà le vicende di questa nobile famiglia siciliana, ricca e rispettata. Teresa Uzeda, in realtà, è colei che ha sposato Consalvo VII, quando lei ne aveva trenta e lui diciannove, e il matrimonio era servito al principe Giacomo XIII, "che spendeva e spandeva regalmente", a rimpinguare le casse quasi vuote della famiglia. Gli Uzeda, infatti, "non avrebbero dato Consalvo VII alla figlia d'un semplice barone contadino, se costei non avesse colmato coi quattrini la distanza che la separava da un discendente dei Viceré." Sono, quindi, gli Uzeda, i Viceré del titolo, di cui facciamo conoscenza con ritratti superbi, in particolare quello del benedettino don Blasco, cognato della defunta, dalla lingua che taglia e cuce, sempre pronto a criticare e a mettere zizzania, non perdonando al padre Giacomo XIII di averlo costretto al convento, e che "aveva seminato figliuoli in tutto il quartiere, e manteneva tre o quattro ganze", tra cui la "Sigaraia" donna Lucia, la preferita. A differenza e a completamento del Verga (del quale assorbe il culto della "roba"), il mondo che viene eletto a soggetto della vicenda è quello dell'aristocrazia meridionale, che vive in antichi palazzi attorniata da molta servitù onorata di trovarvisi a servizio da più generazioni, e dal popolo minuto che ancora le riconosce il diritto e il privilegio di una esistenza superiore. Come ne "Il Gattopardo" di Giuseppe Tomasi di Lampedusa noi udiamo la cantilena del rosario recitato nella casa del principe Salina, così qui avvertiamo l'odore dei ceri accesi attorno alla bara della defunta, i pianti delle prefiche, la ressa e la curiosità della folla che non può mancare ad un evento così importante. I tempi vengono scanditi lentamente e minutamente sono osservate le vicende. Sono già palesi in queste prime pagine le misure ampie di un affresco poderoso che l'autore si accinge a disegnare per noi, che tramandi il ritratto di una Sicilia che
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