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scheda di Gritella, R., L'Indice 1998, n.11
Nel 1804 le valli di Chamonix versante francese del Monte Bianco, avevano ceduto da quasi trent'anni agli entusiasti assalti di Horace Benedicte de Saussure e di Paccard e Balmat, i primi conquistatori della vetta più alta d'Europa. Si era però ancora agli albori della storia dell'alpinismo, e la passione per le montagne suscitava, nelle città e nell'opinione pubblica, più rimproveri e incomprensioni che consensi. Capitava tuttavia che la curiosità per quella che si pensava fosse solo una nuova moda per sfaccendati spingesse ogni tanto qualche intellettuale all'ombra delle alte cime. Uno dei primi fu Chateaubriand, che in realtà qualche montagna l'aveva già vista in America, e che prima di partire per Chamonix si era temprato con un soggiorno in Alvernia. Il giudizio che il poeta bretone ci ha lasciato, in un breve scritto riscoperto ora dall'editore Tararà nell'interessante collana "Di monte in monte", non gioca a favore del Monte Bianco. Inappellabile la sentenza del poeta: Chateaubriand proprio non capisce che cosa ci trovino i suoi contemporanei nell'immensità dei monti, così alti da togliere il respiro e la luce, e ritiene la nascente attività alpinistica del tutto inutile. Le montagne, secondo il francese, possono al limite essere ammirate da lontano, piacevole cornice al paesaggio più dolce e umano di colline e montagne. Ma del resto, che cosa ci si sarebbe potuti aspettare dal giudizio di un uomo abituato al mare e alle corsare mura di Saint-Malo?
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