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Il disegno è grezzo, la linea è "brutta": traballante, per nulla rassicurante, imprevedibile, scarna. Le pagine sono quasi vuote, a volte completamente bianche o con un unico disegno, essenziale, al centro. Questa estrema semplificazione visiva va di pari passo con quella narrativa: il testo è immediato, non fraintendibile, asciutto quanto la linea. Gipi dimostra una grande capacità sintetica, in realtà indispensabile, dal momento che queste strisce in bianco e nero erano pensate per il web e quindi per una lettura a scorrimento verticale, con un tempo e uno spazio molto diversi rispetto alla classica struttura tavola-fumetto. All'interno di questa forma originale e innovatrice, il lettore si ritrova spiazzato, perde del tutto i riferimenti del fumetto tradizionale, chiaro e realistico, e viene catapultato e coinvolto nel mondo reinterpretato dell'autore. Il tono della narrazione è ironico e paradossale, sempre venato da una vivace verve comica, ma risulta altresì cinico e crudele, in nessun caso benevolo o indulgente, neppure nella striscia Che brutto uomo, il cui protagonista non ha altra colpa se non avere uno sgradevole aspetto. L'impressione è che l'autore guardi il mondo da lontano, da "un po' più in alto", in modo distaccato: osserva la cattiveria umana, racconta la mortificazione auto-inflitta per compiacere il denaro (Lost, stupendo, spietato), riflette sull'inutilità dei flussi di coscienza (Sms dalla coscienza), consapevole di non far parte di questo universo umano, di queste piccolezze (Gli inferiori), di queste meschine sofferenze, pur sempre, però, sofferenze (Stronzi). In realtà, poi, il racconto rimane leggero e divertente: si riflette, ma si sorride, anche. Pure l'autore sorride, e lo fa con un sorriso ironico, lo stesso con il quale ti potrebbe tirare una coltellata e lo sta facendo e tu non te ne accorgi neanche.
Annamaria Cervai
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