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Verso la terra promessa. Storia del pensiero sionista
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Descrizione


Il racconto di Goldberg comincia da Moses Hess, autore di "Roma e Gerusalemme" e da Theodor Herzl, il fondatore del sionismo politico che sognava uno stato ebraico in Palestina che amalgamasse il meglio della cultura europea. Altri pensarono a un sionismo come occasione per realizzare l'ortodossia religiosa o il socialismo o il comunismo o la rigenerazione attraverso il lavoro agricolo. Con l'inizio dell'insediamento in Palestina il sionismo si rafforza trovando paladini opposti come il demagogo di destra Vladimir Jabotinsky e il socialista Ben Gurion, per giungere alla realizzazione dello stato israeliano.
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Dettagli

1999
19 marzo 1999
336 p.
9788815066497

Voce della critica


recensioni di Bidussa, D. L'Indice del 1999, n. 11

Il libro di Goldberg ha il pregio di affrontare la disamina del sionismo distinguendo tra sistema di riferimenti culturali e simbolici, da una parte, e reticoli progettuali che connotano un movimento di idee e di individui, dall’altra. Goldberg, come precisa già nella sua introduzione, rivolge la sua attenzione al sionismo in quanto "storia delle idee", ovvero indagandolo "per le sue correnti intellettuali, sociali e politiche che hanno modellato gli individui e le loro teorie".

Il sionismo cessa così di presentarsi come un nucleo ideologico e politico compatto per trasformarsi in un territorio ideologico e politico altamente accidentato in cui si confrontano destra e sinistra, secolarizzazione e tradizione, modernizzazione e rifiuto dei processi innovativi, socialismo e nazionalismo. Su tutto predomina il conflitto radicale tra la descrizione dell’ebreo sionista come "ebreo nuovo" in contrapposizione con l’ebreo storico della diaspora, secondo un meccanismo classico di quelle minoranze che, pur vittime degli stereotipi delle maggioranze soggette all’ideologia dell’"uomo nuovo", ne riproducono spesso gli stessi meccanismi mentali, come aveva ben intuito George Mosse (si veda il suo L’immagine dell’uomo, 1996; Einaudi, 1997; cfr. "L’Indice", 1997, n. 9).

Questo tipo di contrapposizione, tuttavia, non esclude le altre, ma spesso le riassume e le attraversa. Come mostra Goldberg, il sionismo è un movimento i cui esponenti di punta non sono accorpabili in un unico tratto caratteriale.

È sufficiente osservare comparativamente i profili che Goldberg dedica agli esponenti del sionismo nel corso della sua indagine. Dai "precursori" (Moses Hess, Leo Pinsker, Zevi Hirsch Kalischer) ai fondatori del sionismo politico, ovvero da quanti ritengono possibile la realizzazione del "ritorno a Sion" come risultato di un’azione di rapporti politici (Theodor Herzl, Max Nordau). Da coloro che ritengono che solo attraverso una rigenerazione culturale sia possibile una rinascita nazionale (Achad-ha-am), oppure coltivano un disegno di rigenerazione socialista (Nocham Syrkin, Ber Borochov) di stretta osservanza marxista, a coloro che hanno un’immagine più populistica della politica, ma nondimeno movimentista, siano essi laburisti (David Ben Gurion) o esponenti della destra moderna (Vladimir Jabotinsky). Da una parte gli ortodossi, inizialmente antisionisti e poi aderenti all’idea di un ritorno laico a Sion nella prospettiva di detenere, alla lunga, le chiavi di riferimento identitario, e dunque alla fine destinati a ereditare il risultato del movimento politico egemonizzato "pro tempore" dai laici (Kook), cui si confrontano gli umanisti, siano essi ortodossi o laici secolarizzati (Hugo Bergmann, Jehuda L. Magnes, Gershom Scholem, Martin Buber), gli unici ad avere una percezione reale e non edulcorata del rapporto con la popolazione araba, ma anche gli unici a non riuscire a elaborare una linea di azione politica.

Ebbene, noi possiamo comporre una tavola sinottica di tutti questi attori, ma alla fine non per questo il meccanismo di che cosa sia il sionismo ci risulterà più chiaro. Goldberg giustamente li ha scelti per far emergere ogni volta un carattere costituente, ma con grande accortezza e sensibilità culturale non li esaurisce in un solo ambito, richiamandoli costantemente nel corso della sua trattazione. E il problema non è davvero risolvibile in forma netta, per almeno due buone ragioni: la prima relativa al carattere del sionismo come movimento, la seconda che pone il problema del peso specifico del sionismo nella vicenda ebraica contemporanea e che lo rende inovviabile e insuperabile benché lo si giudichi in crisi non solo come movimento politico, ma persino come apparato ideologico.

Il sionismo rientra nella famiglia dei nazionalismi, ma al tempo stesso non è riducibile alle forme classiche del nazionalismo moderno. Di quelle ha il culto del territorio, ma lo separa da esse il rifiuto della propria condizione sociale. Il sionista non è solo un individuo che decide di torcere la storia e accelerarla. Il biglietto di ingresso nella storia non è dato solo da un attivismo organizzativo – come riteneva Herzl –, bensì dallo sforzo prometeico per riuscire a marcare lo scarto con la civiltà da cui si proviene e di cui sono stati assunti stili di vita, modelli sociali, strutture mentali. È per questo che alla radice del sionismo non sta il ritorno di una specifica coscienza etnica, bensì l’esatto opposto. Per i sionisti non è vero che si può ipotecare il futuro a condizione che si abbia un passato. È, invece, vero l’opposto: si può avere un futuro solo se ci si libera dal e del passato.

Andare in Palestina non è sufficiente, e, comunque, certifica solo la denuncia di un mito ora vissuto come negativo. Sarà la storia mitizzata ed eroicizzata dell’insediamento secondo un percorso simile alla "frontiera mobile" americana (in termini di "mito collettivo", di creazione ex nihilo dello Stato, di "guerra totale per la sua sopravvivenza", ovvero di memoria collettiva che si fonda intorno alla figura della "nazione in armi") a rendere possibile quel passaggio. Infatti il rifiuto del passato implica che il sionismo sia privo di un sistema di simboli a-temporali cui richiamarsi. Il sionismo, in altri termini, narra di sé che ha "un futuro da guadagnare e niente da perdere".

Ma quando questa credenza si inverte, e si impone la necessità di un recupero mitizzato del passato, ecco che allora questo processo non sarà irenico.

Infatti il processo che si apre negli anni settanta e che simbolicamente ha il suo momento più altamente espressivo nell’assassinio di Rabin, è la spia di una guerra civile a lungo covata e mai risolta, comunque spesso rimossa. Indica che i processi in corso riguardano trasformazioni politiche e inquietudini culturali che di fatto rendono esplicita l’impossibilità di parlare di unità del popolo ebraico (uno dei temi essenziali del mito sionista). Il sionismo, in questo quadro, non è più una risposta. È divenuto una delle figure che permettono di descrivere l’identità ebraica oggi. Ma il discrimine non è più tra sionismo o antisionismo. È tra chi pensa che l’identità ebraica sia un costrutto naturalmente armonico (in linea con una struttura totalitaria della mente) oppure una realtà cacofonica.

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