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Considerato, dal punto di vista drammaturgico e narrativo, un momento ad alta densità significante, il finale di un film - come, del resto, quello di un qualsiasi racconto - ha goduto di un'attenzione critica-teorica assai inferiore all'altro momento chiave di ogni narrazione che è l'inizio. A questo mancato equilibrio rimedia, in parte, Bruno Di Martino scrivendo un intero libro dedicato, appunto, al problema dei finali cinematografici. Più che a definire da un punto di vista strettamente teorico il problema, Di Martino mira a un primo tentativo di classificazione e di analisi dei vari tipi di epilogo cinematografico. L'autore individua così tre "strutture narrative forti" (l'happy end, il finale drammatico, il finale aperto) e una serie di "strutture narrative variabili" che possono liberamente intersecarsi alle prime (i finali a sorpresa, ideologico, morale, molteplice, dilatato, provvisorio e il metafinale). A metà tra il primo e il secondo gruppo sta il finale circolare "nella duplice veste di semplice cornice di una vicenda o di struttura risolutiva altamente significante".
Molte di queste categorie e sottocategorie danno vita ai diversi capitoli in cui il libro si struttura e nell'ambito dei quali l'autore offre un gran numero di esempi ripresi dal cinema di ogni tempo e paese. Il capitolo sull'happy end, ad esempio, prende le mosse dagli studi di Northop Frye (Anatomia della critica, in particolare) per ribadire l'universalità di nozioni come quelle di anagnorisis o cognitio ("un'improvvisa variazione, una rivelazione che rovescia e sblocca l'azione puntualmente verso la fine") che dalla commedia classica passano senza soluzione di continuità al cinema hollywoodiano magari ribattezzate con le più irrispettose definizioni di gimmick o weenie. A seguito di queste considerazioni generali, Di Martino si sofferma su alcune delle principali figure su cui si costruisce il lieto fine, come il salvataggio (Intrigo internazionale), la fuga (E.T.) e l'agnizione (Complesso di colpa). Ma l'happy end si lega anche ad alcuni generi cinematografici ben precisi: nel melodramma di Matarazzo, ad esempio, esso si costituisce spesso come ricongiungimento della famiglia. In questo genere, tuttavia, il lieto fine è una possibilità raramente battuta - prevalgono in esso i finali drammatici secondo le leggi dell'amore impossibile -, cosa che invece non accade nella commedia che, quasi per necessità strutturale, l'happy end lo vuole a ogni costo, spesso - come nota Di Martino - con "il finale a due con bacio (quasi sempre molto rapido) con i profili dei protagonisti ben posizionati davanti alla macchina da presa, sui quali sopraggiunge, con la dissolvenza in chiusura o in sovrimpressione, la scritta 'The End'".
Altro tipico finale lieto è quello della commedia sociale in cui sono messi in scena i processi di autocoscienza della middle class. Spesso le commedie di Capra ne costituiscono un valido esempio, su tutte La vita è meravigliosa, dove, grazie all'intervento di un vero e proprio angelo, un uomo si rende conto di quanto la sua vita sia stata utile alla comunità di cui è parte, e ora questa gli mostrerà la sua riconoscenza salvandolo, con una colletta, dalla catastrofe economica. A conclusione del capitolo, l'autore del libro si sofferma su quegli happy end ambigui - come quello di Velluto blu -- in cui il cinema americano - la fucina del lieto fine - sembra volere ripensare se stesso e mettere in crisi l'intero proprio sistema.
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