Ottavio Dentamaro è il protagonista-narratore di quest'ultimo tassello dell'indefinito e infinito affabulare di Permunian. E chi lo conosce sa come tale facoltà sia in lui maliosamente priva di argini. Può intrappolarti per ore nella tenace e leggera seta della sua ragnatela verbale. Il miracolo che continua a compiere è trasformare tale dote nativa in una scrittura estremamente calibrata e controllata. Una scrittura, che in modo spaesante, sa passare dai toni plebei e dal lessico della quotidianità ad accensioni liriche che aprono varchi inattesi sulla condizione umana, affacci che tanto più vanno a segno quanto più fioriscono su un terreno scatologico. Insomma, una scrittura ossimorica. Leggendo i suoi vari romanzi ma si può usare questo termine inadeguato e fuorviante per gli artefatti di Permunian? ci sembra di vagare in un medesimo territorio, ci pare di trovarci sempre in una qualche casa del sollievo mentale. É fortissima l'unità di ispirazione. Permunian non è un inventore di trame commercialmente consumabili. Ma si fa leggere: eccome! In un certo senso potremmo considerarlo la sua opera un corrispettivo letterario del cinema di John Waters: il dissacrante regista hollywoodiano, noto per i suoi film provocatori e blasfemi, per il suo cosiddetto "cattivo gusto" (celebre il suo titolo Mondo Trasho, "an insane fabulous adventure story": perfetta definizione anche per il nostro oggetto). Le trame, in Permunian, ci sono e non ci sono: costruirne non è certo l'obiettivo che egli si prefigge. Dal suo circo di fantasmi − personaggi ghermiti dalla cronaca mondana, da una variegata esperienza di vita, dall'immaginazione, tutti estremizzati nei loro tic, nelle loro manie − emerge una serie di temi ricorrenti: il ricordo ("vivo di ricordi e non ho progetti"); il passato che non passa; il disdegno nei confronti della kermesse culturale (senza, peraltro, i toni queruli e risentiti di un Moresco); le voci che assediano e assalgono il narratore-autore sussurrando i loro perturbanti messaggi dai limbi della mente come dai pozzetti stradali, o che lo ossessionano con atroci risate; il rosichìo della decadenza fisica e della morte come la presenza efficace dei defunti; la provincia (raccontare l'"immutabile carattere provinciale degli italiani"); l'interesse per la religiosità nei suoi aspetti di perversione, ma non solo. Ma c'è in lui anche la capacità di creare personaggi stralunati lunatici e folli e di metterli in campo, sia pure in maniera extravagante, a partire dal protagonista non a caso battezzato Dentamaro (è spagnolescamente un "hombre propenso a la melancolía", che si firma però con il nom de plume di Ottavio Bigòss, un grasso formaggio delle valli bresciane), giornalista di un provincialissimo e veneto Eco delle Alpi (titolo trafugato all'antico foglio della bellunese Accademia degli Anistamici), che poi, prima del risucchio finale nel gorgo del passato, diventerà manager e imprenditore, con un certo successo, della devozione popolare cattolica. Ci sono poi la straordinaria Marietta, nonna del suddetto, che affronta una blefaroplastica, per poter meglio comparire nella grottesca contestazione di un 25 aprile insieme alla complice donna Olimpia, cartomante dal retaggio salotino; la santocchia ma dolce Leopoldina che masturba salmodiando; Pancrazio, artigiano di angeli in cera, che si fa martire cristiano evirandosi, o quasi; il quartetto di Lubiana, che non è ovviamente un quartetto musicale, ma un affiatato gruppo di professioniste del sesso aduse a ogni impronunciabile pratica; e tanti, tanti altri. Sesso, devozione e cultura (scarsa) provinciali, insomma, raccontati con distorsione anamorfica, facendoceli cioè vedere da un'inedita prospettiva. Qual è, allora, il filo conduttore di quest'ultima favola, se non vogliamo, o non possiamo, forse, parlare di trama? È quello della vera religione dell'autore, che è poi per lui l'unica autentica religione: è il filo dei ricordi (anzi della sterpaglia dei ricordi) e delle voci del passato che si fanno strada in mezzo a una miseria umana, troppo umana, per quanto vitale. È il loro rumore di fondo, il loro fruscio che si fa talvolta assordante, a imporsi sul narratore, alter ego di Permunian. Il passato non muore mai, e non è neanche passato, come recita Faulkner. Il dolore per la perdita degli affetti più cari, persone cose paesaggi, non si può cicatrizzare, è irredimibile. E così Dentamaro, colpito in un punctum originario, attraversa e conosce tante situazioni, comiche, squallide, paradossali e sembra quasi poter riemergere dalle sue ossessioni insieme alla dolce Leopoldina, ma le armate del passato non demordono. E un gelido vento d'oltretomba si riappropria di lui, e in finale lirico, tra gli echi de La mamma morta cantata da Maria Callas, viene sommerso dalle acque, insieme ad A., l'unica donna amata, avviandosi al perpetuo oblio. Un finale anch'esso ossimorico, di esasperato romanticismo, che fa da contrappunto alla materia triviale e impudente delle storie precedenti. L'ultima favola è un patetico circo felliniano in cui un clown triste si aggira senza trovare un exitus, se non la morte, l'oblio: certo, non c'è bisogno di dirlo, Permunian, fortunatamente, non è mainstream. Mario Marchetti
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