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recensione di De Agostini, D., L'Indice 1997, n.10
Due figure, tratte da lettere nelle quali il romanziere scherzosamente si autodefinisce, illuminano le pagine dedicate da Macchia a Proust sull'arco di cinquant'anni: Andromeda legata allo scoglio, e il profeta Neemia che attende, dall'alto della sua scala, alla ricostruzione delle mura di Gerusalemme e rifiuta di scendere affermando di essere impegnato in un "grande lavoro" che non può venir interrotto. Sono due figure nelle quali si rispecchiano i volti che dell'autore della "Recherche" il critico ha voluto privilegiare per unire come in un mosaico e legare tra loro gli aspetti che ne restituiscono la complessa peculiarità del pensiero e dell'opera. Dalle "rovine" del romanzo incompiuto "Jean Santeuil" al dattiloscritto, ritrovato nel 1987, di "Albertine scomparsa", questi saggi - già apparsi in precedenti volumi o su rivista - abbracciano l'intero e compiuto cammino proustiano; meglio del famoso ritratto che di Proust dipinse Jacques-Émile Blanche ci lasciano intravedere gli ostacoli e i voli, le dolorose rinunce e i silenzi, gli orientamenti letterari e culturali, le crisi e i superamenti che porteranno lo scrittore a liberarsi di quel brillante io mondano in cui vide il proprio "compagno di catena" per isolare l'altro io, quello sofferente e malato, "incerto e zoppicante", la cui voce poteva diventare scrittura. Due immagini, Andromeda e il profeta Neemia, di solitudine e di attesa: ma dal lamento della prima, inesorabilmente tesa verso un amore inafferrabile e a un tempo irraggiungibile, si libera quell'"incanto della desolazione" che permeerà i racconti giovanili de "I piaceri e i giorni"; mentre il lavoro strenuo del secondo, pazientemente prigioniero del faro che dà luce all'artista, getterà le fondamenta dell'opera capace di attraversare sia gli spazi dell'infinitamente piccolo (delle impercettibili sfumature soggettive del quotidiano), sia quelli dell'infinitamente grande (cioè delle leggi psicologiche ed estetiche che rendono decifrabile, per Proust, l'esperienza umana).
Si chiarisce così, nelle pagine di Macchia, il nesso inscindibile tra malattia e creazione, canto della poesia e reclusione, silenzio e comunicazione, oblio e memoria: è Perseo, oppure il mostro, che Proust-Andromeda attende, vigile, in "servitù volontaria", per realizzare, nutrendosi dei fantasmi del tempo e della morte, la sua immensa e faticosa opera di architettura il cui disegno dovrà essere al tempo stesso visibile e dissimulato. Dall'immobilità e dalla solitudine emergono allora tutti quei volti di ispiratori e di intercessori che hanno guidato lo scrittore verso la libertà e la salvezza; o anche volti di artisti e di scrittori il cui cammino si è intrecciato al suo convergendo verso temi comuni, più o meno consapevolmente. Macchia li passa in rassegna: dai presunti "maestri" Bourget e France, il cui ruolo è stato certo in passato sopravvalutato, a Taine e Binet, figure di spicco della psicologia ottocentesca; da Ruskin a Dostoevskij; dal Wagner di "Parsifal" a D'Annunzio; sino all'enigma della pittura di Vermeer, alle cui figure affondate nel silenzio Proust affida, nell'episodio dell'agonia di Bergotte, la storia della propria morte e la speranza di eternità della propria opera.
Con Pirandello non possiamo parlare in senso proprio di un incontro; ma, come Macchia è stato il primo a mostrare, partiti dalle stesse letture psicologiche, i due scrittori convergono verso uno stesso "palcoscenico dell'io", su cui si celebra lo scacco dell'"intelligenza" tradizionalmente intesa. Non meno interessante (e sconcertante) l'incontro - questa volta epistolare - con Raymond Roussel, di cui Proust seppe apprezzare il poema "La Doublure", con i suoi singolari giochi linguistici basati sui sensi diversi di una stessa parola.
Quel che in questi incontri è in gioco, drammaticamente, è la coscienza che Proust ha dell'"inattualità" della propria opera, dell'estrema difficoltà di vederla riconosciuta e affidata con qualche garanzia di sopravvivenza alle generazioni a venire. Nell'epistolario proustiano, dove questo motivo ossessivamente riaffiora, abbiamo l'impressione che l'opera - come un borgesiano "giardino dei sentieri che si biforcano" - cerchi disperatamente la propria meta, quella di una recezione piena e congeniale, con la paura di non incontrarla mai. La incontra invece - paradossalmente - in quella che è per Proust la "terra inestetica" per eccellenza, quell'Italia che lascia perire i propri monumenti, li ignora, li trascura; è infatti l'oscuro giornalista Lucio D'Ambra, scopritore italiano della "Recherche", a dare a Proust l'immensa gioia di decifrare l'apparente caos del suo romanzo, per riconoscervi l'opera dell'"ostinato orologiaio" che con la sicura giustezza del battito quel caos controllava impeccabilmente.
Ed è ancora in Italia, ultimo paradosso, che nelle pagine di Macchia trova una spiegazione plausibile la versione abbreviata di "Albertine scomparsa" ritrovata dattiloscritta nel 1987; non testo definitivo, come volle parte della critica francese, ma collage destinato a una prepubblicazione. Ai tre frammenti del romanzo di Albertine che Proust si propose di pubblicare su rivista, con i titoli rispettivi di "Jalousie", "Précaution inutile" e "Albertine disparue", Macchia restituisce così il loro giusto spazio, spazio tragico in cui si inscrivono i tre momenti della gelosia, della morte, dell'oblio. Tutti condizione di salute e di vita, di quell'"allegria della creazione" che Proust condivideva con Wagner, e che, negli ultimi ritratti affidati alla posterità, facevano del suo volto magro di asceta il compagno dell'opera "allegoria del diluvio".
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