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Gli echi delle bombe su una Napoli offesa, i racconti dei reduci, la voracità di chi è rimasto e non ha più nulla, gli ultimi spasimi del fascismo. Poi, l'epoca della ricostruzione: le Am-lire, le sigarette americane, il mercato nero. L'eruzione del Vesuvio del '44, il cielo plumbeo, i lapilli che coprono i tetti delle case, una coltre di cenere che ovatta l'intero paese. Sullo sfondo di una Storia che riguarda l'Italia tutta, nell'ultimo romanzo di Luigi Lerro si snodano l'intensa saga familiare dei Navarra, e la storia più intima e di crescita di Rocco, figlio di Carmelo e Rosa. La voce narrante del protagonista ci accompagna tra i ricordi della sua infanzia, trascorsa nel piccolo borgo natio ai piedi del Vesuvio, nella provincia salernitana. Qui, tutto appare lontano, immobile, sordo al mutamento e all'innovazione, che pure generazioni e generazioni di Navarra hanno tentato di apportare: il tempo scorre lento, trapuntato dal susseguirsi ciclico delle stagioni, avvinto nel ricordo dei fasti del regno borbonico, tardo ad abbracciare il futuro. La persistenza dei ruderi di tufo della Casa delle signore, tra le cui mura i protagonisti si aggirano come fantasmi, ben rappresenta l'ostinazione dei personaggi a voler vivere nel passato. Il nonno, soprannominato il Barone, prima di cadere in disgrazia, aveva fatto la sua fortuna a Napoli con l'invenzione delle serrature; il padre, Carmelo, ritornato, invece, al paese, aveva dovuto battersi per tentare solo di far capire ai suoi conterranei la portata delle sue moderne idee, sulla ruota e la meccanica. Nemo propheta in patria si ode più volte nel romanzo, come un leitmotiv tetro e cantilenato. A Rocco la grande e pesante eredità: il nome di una famiglia conosciuta per genialità da tutti e il brevetto dell'invenzione paterna. A lui, ultimo di una stirpe di inventori, il libero arbitrio, nelle sue mani la possibilità di scegliere che fare di se stesso: restare, cullandosi nel ricordo di quello che fu, o partire.
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