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Il trono vuoto. La transizione della sovranità nella Rivoluzione francese
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1 gennaio 1997
XV-243 p.
9788806114473

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Piero Canale
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Il vuoto di sovranità

Prima dei fatti del 1789 la parola “rivoluzione” indicava un atto riformatore che facesse uscire lo Stato dall’illegalità, rendendo una «libertà precedente, forse mai esistita prima di allora, ma in qualche modo radicata nella ragione umana, e quindi nel tacito patto fra chi governa e chi è governato». La rivoluzione francese fu, invece, un fenomeno innovativo, che colse di sorpresa le persone colte e politicizzate e «chi era stato da sempre oggetto passivo della sovranità e si trovava ora a esserne collettivamente il soggetto». La rivoluzione fu quindi un «trauma della transizione della sovranità». Tuttavia essa è il luogo anche di altre transizioni nelle diverse sfere della politica, dei conflitti sociali e dell’economia. L’ambiguità del termine “rivoluzione” fa in modo che i contemporanei parlassero di «terminare la rivoluzione» ancor prima dei fatti dell’Ottantanove. Dal 1789 al 1793 si verificò quel vuoto di sovranità che terrorizzò il popolo. Il giacobinismo riuscì a «dirigere la rivoluzione», e «fu l’unica forza politica che si diede da fare concretamente ed efficacemente per essere gruppo dirigente della rivoluzione, e per far valere la propria ‘egemonia’ sulle forze sociali che erano state evocate». Il giacobinismo non a caso è visto come luogo di nascita della politica moderna. La transizione della sovranità si concluse, o si avviò a conclusione nel 1793, quando il «trono vuoto» venne rioccupato. L’analisi compiuta dal libro propone l’individuazione di due momenti di svolta della rivoluzione francese. Il primo momento è l’estate del 1789: la rivoluzione si trasforma dal «progetto costituente che si sforzava di terminare la ‘rivoluzione’, cioè l’illegalità della monarchia, in una catastrofe alla quale non si può, non si sa, addirittura non si vuole opporsi». Il secondo momento è la fine del 1792, quando la rivoluzione ha esaurito il suo andamento catastrofico: allora essa potrà esprimere un gruppo dirigente egemone capace di rioccupare il trono vuoto.

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recensione di Terni, M., L'Indice 1990, n. 1

Il bicentenario del 1789 è caratterizzato dalla presenza forte del "politico" come contesto e problema fondamentale della rivoluzione. Questa è l'indicazione che traspare dalle opere più significative quali ad esempio il "Dizionario critico della rivoluzione francese" diretto e curato da Francois Furet e Mona Ozouf (Bompiani, 1989) e "La Rivoluzione francese Politica, cultura, classi sociali" di Lynn Hunt (Il Mulino, 1989). In questo ambito particolarmente tempestiva e opportuna appare la pubblicazione del saggio di Paolo Viola "II trono vuoto".
Che cosa è la rivoluzione francese per Paolo Viola? Essa non è la rivoluzione sociale della borghesia trionfante come per più di un cinquantennio ha sostenuto la storiografia classica di Jaurès, di Mathiez, di Labrousse, di Lefebvre e di Soboul. Su questo punto Viola ha aderito alla revisione degli anni sessanta di Francois Furet che, riprendendo la tesi di Alfred Cobban, denunciava il mito della rivoluzione francese in quanto rivoluzione borghese. Essa è invece definibile come la rivoluzione politica dell'età moderna: il centro supremo e l'essenza del potere, da tempi immemorabili identificati e incarnati nella persona sacra del re per diritto divino, sono stati trasferiti nella persona collettiva di un popolo sovrano che si assume la responsabilità di se stesso. La rivoluzione francese viene dunque raccontata da Paolo Viola nei termini del trasferimento della sovranità dal re alla nazione, sottolineandone gli episodi salienti di lesa maestà, quali ad esempio le giornate dell'ottobre '89 e l'assalto finale alle Tuileries del 10 agosto 1792. La conseguenza naturale di tale capovolgimento della fonte e della forma del governo supremo è, come indica il titolo del libro, che "il trono è vuoto". Quell'autorità che, per quanto iniqua e irrazionale, nella monarchia di antico regime godeva di una sua legittimità ed efficacia, ha perso forza e consistenza; al suo posto si è creato un vuoto di potere per il momento incolmabile. Il trono è vuoto, perché il popolo sovrano non è in grado di occupare secondo modalità legali il posto vacante del re deposto. Come ha scritto il "monarchier" Mounier, moderato protagonista del trasferimento della sovranità nell'estate dell'89, tra i primi ad emigrare subito dopo le giornate di ottobre, "si può dire che presso un popolo che ha la sfortuna e la stupidità di credersi sovrano il trono è vuoto". In tale vuoto si innesca un dramma in tre atti corrispondente a tre fasi concettualmente distinte della rivoluzione, anche se talvolta cronologicamente sovrapposte, in cui si articolano le tre parti di quest'opera; terminare la rivoluzione, subire la rivoluzione, dirigere la rivoluzione.
La prima fase - "terminare la rivoluzione" - inizia prima ancora che la rivoluzione stessa sia cominciata. Quest'ultima deve porre subito fine a sé stessa in quanto forma illegale di potere. Illegale rispetto alle istituzioni del governo tradizionale la cui legittimità era basata sulla possibilità di identificare la volontà sovrana con la volontà personale del re, fisicamente tangibile e visibile, e quindi sulla possibilità di distinguere la fonte della suprema autorità dall'esercizio della sua forza delegata ad altri. Questa netta separazione tra autorità e forza, tipica della cultura giuridica dei parlamenti, era ciò che differenziava una monarchia legittima dal dispotismo. Con il trasferimento della sovranità che si attua con la rivoluzione, proprio questa distinzione era venuta meno: il popolo sovrano doveva essere insieme la fonte e l'esecutore del suo stesso potere. I deputati dell'assemblea nazionale costituente, in quanto rappresentanti legali, regolarmente eletti, della nazione, cercarono invano e a più riprese di arrestare la rivoluzione e di ridare un assetto costituzionale al nuovo sovrano. Ma il rigore geometrico dei principi del diritto naturale, sia pure nella versione più sofisticata e meglio radicata nella tradizione politica del "giardino alla francese" proposta dall'abate Siéyès non servì a "terminare la rivoluzione". Essa continuò nella sua corsa precipitosa, attuandosi nelle sue altre due fasi, tentativi di trovare una via d'uscita dalla 'impasse' creatasi con la illegale coincidenza di autorità e forza.
Nella seconda catastrofica fase - "subire la rivoluzione" - è il popolo sovrano che manifesta direttamente e spontaneamente la sua volontà, nell'impossibilità di trovare una rappresentanza di sé adeguata alla nuova maestà di chi vuole e deve essere collettivamente il re. Così il popolo soppiantando il "formalismo rappresentativo" dei teorici della Costituente, impone il "sostanzialismo etico" di un sovrano che interviene in prima persona: come scrive Viola, "il popolo in assemblea, la manifestazione armata, la folla massacratrice sono [...] altrettante espressioni della sovranità". È evidente l'analogia tra la maestà del re e la sovranità del popolo: nel trasferimento gli attributi della prima devono riprodursi nella seconda. E se con Viola si vuole "parafrasare la pratica sovrana di antico regime", si può dire che "il popolo con la giornata rivoluzionaria siede in un 'lit de justice'" ponendo in atto una autorità collettiva che sovranamente parla, colpisce e punisce, mentre i dirigenti tacciono e assentono, rinunciando alla effettiva rappresentanza della sovranità.
Così la rivoluzione non viene affatto terminata, ma anzi subita nei suoi eccessi, da quelli più noti, quali i massacri di settembre del '92, a quelli inediti, come ad esempio un caso di antropofagia collettiva la cui macabra atrocità viene ricondotta ad un'antropologia politica del trasferimento della sovranità: il tradimento di Guillin, signore di Poleymieux, massacrato dai suoi contadini evoca per similitudine il tradimento del re. Come osserva Viola, "Guillin era il signore, ed era anche l'effige del re. Per due fra i suoi assassini l'atto simbolico della giustizia si spinse fino all'incorporazione di frammenti del cuore e della mano dell'autorità traditrice". Sono forme di democrazia diretta spontaneamente messe in atto dalla folla, naturalmente diventata sovrana nel vuoto di potere creato dallo stesso trasferimento della sovranità.
Ma il destino della Francia, assediata dalla coalizione europea e dalla controrivoluzione, non poteva essere abbandonato agli eccessi della folla che si fa giustizia da sé. La nuova sovranità doveva trovare la via di una sua forma di rappresentanza e dare inizio alla fase in cui la rivoluzione non è più subita, ma diretta. Ancora una volta è nel passato dell'"ancien régime" ed in una sostanziale continuità con i suoi valori e concetti che viene trovata una soluzione vecchia ad un problema nuovo. I magistrati del parlamento di Parigi si arrogavano la rappresentanza virtuale della nazione, in quanto "sanior pars" legittimata a rappresentare virtualmente il tutto. Allo stesso modo, nella difficoltà di trovare forme di rappresentanza legale della sovranità del popolo, il club dei giacobini si assume la rappresentanza virtuale della volontà generale, mediando, in quanto parte per il tutto, il rapporto tra società civile e stato. I montagnardi che nel '93 prendono il potere costituendo il governo rivoluzionario e finalmente realizzando pienamente la fase del "dirigere la rivoluzione", non fanno che portare alle estreme conseguenze una concezione della rappresentanza largamente condivisa e praticata nell'ambito dei parlamenti di antico regime.
Questo tema della continuità della rottura, così tipicamente tocquevilliano, è forse il tratto dominante del libro di Viola, che ha fatto propria la lezione metodologica del "pensare la rivoluzione" di Furet. Ma ha saputo, a mio avviso, andare oltre, recuperando nei suoi aspetti più originali e inediti una specificità storica della rivoluzione francese, nata non soltanto dalla cultura razionalista e progressita dei Lumi, ma anche da quella anticheggiante e anti-moderna che ebbe a maestri e modelli Plutarco e Rousseau, nella libertà degli antichi contrapposta alla libertà dei moderni.

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