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recensione di Bo, R., L'Indice 1993, n.10
Nel romanzo della Jarre le vicende e i personaggi costituiscono una sorta di mosaico complesso e tuttavia imperfetto, composto da tessere che solo apparentemente combaciano e concorrono a formare un disegno persino troppo organico e decifrabile. In realtà, le sconnessioni fra le singole parti sono profonde, a volte incolmabili, e i protagonisti umani, così come i luoghi, sono fatti e visti vivere in un'atmosfera di imperturbabile calma a cui sono sottesi improvvisi crolli e frantumazioni.
Lo sfondo lascia emergere una Torino che la calura rende figurativa" mente metafisica, con le sue zone di luce e buio, con la sua immobilità sospesa, e che si confronta, in una sfida consueta, con la collina, luogo di spontaneità e "vacanza" (nel senso anche etimologico del termine: l'assenza è quella di un ordine precostituito, di un tempo tirannicamente rettilineo). Il terzo polo spaziale del romanzo è Milano, metropoli lontana e solo evocata dalle parole del protagonista, Lorenzo, un "piemontese strambo" che crede di poter "racchiudere amorevolmente le due Città" (le quali rappresentano per lui il passato e il presente-futuro) in uno spazio allargato, in un continuum indolore di sensazioni e sentimenti che gli consentirebbe di vivere "in un mondo sereno". Due città, due donne, anzi, due mogli: Lorenzo, architetto poco più che quarantenne, vive ora nella capitale lombarda con Gianna e le figlie ancora bambine. A Torino ritorna saltuariamente su richiesta di Silvia, la prima moglie, per seguire le tappe fondamentali della crescita di Francesco, il figlio ormai diciannovenne. Anche questa volta l'occasione della visita è dovuta a "questioni con Silvia", come egli sbrigativamente le definisce, ma fin dal primo momento l'uomo si rende conto che nella città della sua infanzia, a dispetto del suo desiderio di immutabilità ("Non ritorno mai, non parto mai, non sento alcun distacco. Io non mi separo mai"), molte cose sono cambiate, e non positivamente. Il ritorno gli aveva dato all'inizio una "sensazione di pazienza e felicità", come se egli fosse un saggio, seduto su una montagna, a cui la gente va a chiedere consiglio: "E io, serenamente, ascolto e accenno con la testa. Sono di un altro mondo in cui vivo felice, ma posso dare qualche cosa a chi arriva dalla pianura fin sulla mia vetta". Ben presto però deve accorgersi delle tragedie che lo sfiorano 'malgré lui': una coppia di amici si separa, un collega di Lorenzo, che sembrava condurre un'esistenza brillante e di successo, ha un figlio gravemente malato da anni.
Dal passato riemergono le ombre dei genitori, della cui morte violenta e improvvisa (avvenuta in un incidente automobilistico) Lorenzo ancora non riesce a capacitarsi, anche perché non si è mai spento il desiderio d'affetto che la madre e il padre (troppo morbosamente e ciecamente devoti l'uno all'altra) non hanno saputo colmare in lui e nella sorella Valeria. Quest'ultima, che sempre lo ospita nel corso dei suoi soggiorni torinesi, conduce una vita prigioniera, ossessionata da un lato dagli ingombranti ricordi del passato, di cui cerca di disfarsi, dall'altro dalla presenza-assenza di un uomo troppo amato e incapace di riamarla fino in fondo perché omosessuale. Valeria cerca di apparire distaccata da tutto: anche lei, come il fratello, sembra preferire un eterno perpetuarsi delle cose e la staticità del suo dolore a cambiamenti di qualsiasi sorta; a differenza di Lorenzo non possiede però il dono della vitalità, la capacità di rendere positiva questa presa di distanza dalla realtà.
Il punto critico contro cui si scontra l'imperturbabile saggezza e serenità del protagonista è la decisione del figlio Francesco di non continuare più gli studi dopo la maturità, ma di realizzare con alcuni amici una sorta di comunità di lavoro agricola: nel ragazzo e nel suo gruppo sembrano riflettersi le speranze e gli errori che discendono dagli ideali della generazione dei loro padri (quella del '68, per intenderci). Lorenzo si trova così spogliato del suo ruolo di genitore, mentre vorrebbe ritrovare nel figlio il bimbo piccolo che sapeva consolare, oppure un adulto con cui collaborare a un progetto di vita. Ciò che gli resta invece è la certezza della sua impotenza e della sua inabilità a comunicare. Egli stesso ci appare come un bambino che non vuole essere lasciato solo a decidere, che esige di essere costantemente diretto, coccolato, rassicurato. Le sue due mogli rappresentano per lui la madre e il padre amorosi che gli sono mancati: Silvia, distratta, 'naive', creativa, è il grembo accogliente con cui placare ogni ansia, ogni inquietudine, mentre Gianna è piuttosto il prototipo dell'efficienza, dell'intelligenza pratica proiettata verso il futuro, e riveste la funzione ordinatrice del Logos. Protetto da queste presenze femminili salvifiche, solo apparentemente mutato dai conflitti vissuti nei tre caldi giorni torinesi, Lorenzo, in procinto di salire sul treno per Milano riesce a ritrovare la sua incrollabile fiducia nel futuro: "Si tastò come dopo una caduta. Era incolume anche se piccolissimo, infinitesimo. Si disse: qualche cosa dovrà pure andare bene. Un giorno, una squadra dell'Est (Chirghisi, Turkmeni) batterà a pallacanestro gli Stati Uniti. Scriverò il mio libro. E questa volta il frate arriverà in tempo ad avvertire Romeo". Nulla è realmente cambiato, dunque: Lorenzo è tornato sulla cima della montagna, a dominare un mondo che vuole a ogni costo sereno.
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