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Rievocare a cinquant'anni di distanza la propria adesione alla Resistenza permette all'Autore di offrire senza retorica una testimonianza essenziale, che entra nel merito di alcune controversie ancor oggi strumentalmente agitate dal cosiddetto revisionismo storiografico. Una lettura importante dell'ambito delle memorie resistenziali, senz'altro da non dimenticare e da consigliare.
Testimonianza senza alcuna retorica della propria appartenenza al movimento partigiano dell'Oltrepo pavese di un giovane, poi diventato famoso giornalista.
Si tratta di una testimonianza scarna, essenziale e senza un’ombra di retorica sulla guerra partigiana nell’Oltrepo e sul clima che si respirava in Italia subito dopo la liberazione. Non per questo manca di sentimento, se vogliamo anche di parte, intendendo “di parte” in senso positivo: una giusta rivendicazione di chi fu partigiano, di chi aveva compiuto una scelta, di certo la più scomoda, senza aspettare l’evoluzione degli avvenimenti e della guerra. Non dimentichiamo che chi sceglieva di combattere contro tedeschi e fascisti era considerato disertore, sapeva coscientemente di mettere in gioco la vita. Venivano chiamati banditi da fascisti e repubblichini, oggi sicuramente sarebbero stati tacciati di terrorismo, ed invece, pur tra mille contraddizioni, combattevano per la democrazia. Questo dovrebbe indurci a riflettere.Prima di fare processi alla Resistenza si dovrebbe cercare di rientrare nei sentimenti e nel clima di allora, ricordare le violenze dei tedeschi e dei fascisti nostrani, più estreme e crudeli proprio nel momento dell’imminente loro crollo.
Recensioni
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Sorprende (ma dà anche emozioni dimenticate) scoprire che ancora oggi, cinquanta anni dopo, si sia voluto scrivere un libro sulle cronache della Resistenza partigiana. Come se fosse di nuovo il tempo antico dei vecchi librini delle Edizioni Avanti!, dove la memoria fresca di quella esperienza si consolidava in racconti che recuperavano il senso d'una scelta di libertà fatta con naturalezza spartana, perfino con una consapevolezza da inventarsi nel corso della pratica di vita. I tempi dello storico, oggi, sono segnati da altre urgenze, da interessi distinti, da pressioni e sollecitazioni che hanno a forte e inquieto sospetto la verginità emotiva, il candore giovanile, la sobrietà "zeneise", di racconti che disvelano pianamente la quotidianità della vita sospesa che stava dentro la lotta in montagna e non temono di finire stritolati dentro il dibattito del neo-revisionismo a propensione governativa.
A conoscerlo, Murialdi è come il suo libro, impegnato ma non fazioso, civile ma non militante, severo ma sereno. E aperto, solare, sempre mosso dalla voglia di capire. Il racconto, che resta ancorato in gran parte ma non integralmente ai due anni della guerra contadina, ha una chiara scelta di campo, che è quella fissata da Claudio Pavone nel suo Una guerra civile (Bollati Boringhieri, 1991; cfr. "L'Indice", 1991, n. 9), cioè la ricostruzione di un tempo della vita dove la lotta tra due campi opposti della stessa nazione conferma la moralità delle decisioni assunte con la partenza verso la montagna, ma non vuole ignorare o sottacere nulla, né delle atrocità commesse anche da chi aveva fatto "la scelta giusta", né della complessità delle spiegazioni che stavano dietro chi scelse invece di battersi per la continuità d'un regime sconfitto e agonizzante.
Come nei silenzi di Vercors, come sull'altopiano di Lussu, il diario giornaliero delle tensioni e della lotta si trasforma progressivamente nel ritratto d'una generazione e d'un paese, che si scoprono con qualche meraviglia una identità assai diversa da quella che credevano di avere. E i partigiani dell'Oltrepò si fanno uno spaccato di società che riproduce - quasi senza accorgersene - i vizi e le virtù d'un popolo che fatica a riconoscersi nelle proprie contraddizioni, preferendo ignorare le ragioni della storia che le hanno prodotte. Murialdi va in montagna che è poco più di un ragazzo, con poca esperienza, nessuna saggezza, molti dubbi; i dubbi non gli si esauriscono, ma scende giù alla montagna che ormai il suo tirocinio è terminato e lui è un uomo fatto. "La politica mi attira, ma sento abbastanza presto che non fa per me. Me ne accorgo in due dibattiti a Pavia, in un ambiente che non conosco. Non mi piacciono le sottigliezze e le furberie. Reagisco moralisticamente. La politica la farò da giornalista".
Costruito di sola cronaca, asciutto, secco, perfino riservato, il libro è uno straordinario documento storico, esemplare nella sua capacità di ricostruzione d'una atmosfera e d'un clima, che prepararono il mondo del dopoguerra, fino a oggi. E il libro accompagna il corso del tempo (di Murialdi e nostro) fino a oggi, concedendosi la rampogna amara d'un giudizio che salda la moralità della lotta partigiana all'avvitamento cupo di questo presente: "Cadute le ideologie, è cresciuto in misura inquietante il distacco fra la società civile e quella politica, che appaiono due mondi separati. C'è democrazia, ma incompiuta".
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