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recensione di Perrella, S., L'Indice 1991, n. 6
Qualunque cosa scriva, l'immancabile domanda implicita di Alfonso Berardinelli è: a chi mi sto rivolgendo, qual è il mio pubblico, c'è un pubblico? Sembrerebbe un interrogativo scontato: non lo è invece, visto che sono sempre di meno quelli che sembrano porselo. Per Berardinelli è essenziale, e per evidenziarlo basta fermarsi su alcuni suoi titoli: l'antologizzatore intitolò una scelta di poeti, fatta insieme a Franco Cordelli, "Il pubblico di poesia" (1975); il poeta, "Lezione all'aperto" (1979); il saggista, "Il critico senza mestiere" (1983). Evidenti i primi due, bisognoso di una postilla il terzo: il critico è senza mestiere, infatti, anche, e soprattutto, perché senza lettori, affetti l'uno e gli altri da "una sorta di analfabetismo di secondo grado. Dovuto non solo all'irrigidimento delle nostre facoltà, ma anche all'erosione dello spazio entro cui è possibile fare della lettura di un libro un'esperienza reale". Paradossalmente, in un libro successivo, "L'esteta e il politico" (1986), insieme a questa erosione, Berardinelli nota un allargamento del pubblico potenziale: è il pubblico che, usando uno sfuggente concetto sociologico, farebbe parte della "nuova piccola borghesia". "Un pubblico ipersensibile ad ogni richiamo", che si riconosce nei prodotti culturali più disparati, con "un atteggiamento di fondo essenzialmente acritico e soprattutto una sete inestinguibile di identità, di identificazione, di adeguamento e di appartenenza".
Si capirà, a questo punto, come la domanda implicita che muove Berardinelli si faccia sempre più dolorante, e a tratti lasci spazio alla nostalgia per quel "lettore solitario e libero, padrone della propria 'privacy', ribelle e intrepido cercatore di se stesso o membro di una perfetta società liberale, che ci viene incontro dalle pagine delle grandi autobiografie intellettuali"; forse solo un lettore immaginario, comunque costituente l'archetipo morale della società moderna".
Ciò non significa che non ci possano essere vie d'uscita; tra le varie disavventure di lettore, ci si può ricordare, aiutati dall'Adorno dei "Minima moralia", del barone di Munchhausen, il quale "si solleva dallo stagno afferrandosi per il codino", e diventa così "il modello di ogni conoscenza che vuol essere qualcosa di più che constatazione o progetto". "La lettura - conclude Berardinelli - (come la scrittura) è anche un atto di magia. La dialettica individuo-società è più capricciosa di quanto si pensi. E comunque, fare un po' di torto alla dialettica è in certi casi il solo modo di rispettarla".
Ecco infatti che nello stesso anno in cui scrive queste parole, nel 1985, Berardinelli, già impegnato in "Linea d'Ombra", fonda, insieme a Piergiorgio Bellocchio, "Diario": una rivista casalinga, poverissima, quasi privata, uno dei modi possibili di afferrarsi per il codino: ma, poco dopo, torcendo il collo alla dialettica, intraprende un'impegnativa collaborazione a "Panorama", di certo il maggior luogo di transito di quella postmodernità da lui descritta, scegliendosi, però, il ruolo dimesso e quasi didattico del divulgatore di poesia: ogni settimana, partendo da un testo, eccolo, con una prosa piana e persuasiva, passare in rassegna uno sterminato arsenale poetico.
Siamo così al Berardinelli di "Tra il libro e la vita", ultima sua raccolta di saggi, il cui sottotitolo recita: "Situazioni della letteratura contemporanea" (come ne "Il critico senza mestiere", non compare in copertina la parola "saggio": lì si trattava di "scritti" e qui di "situazioni"). Siamo al Berardinelli che, in un dialogo immaginario tra un lettore e un critico, fa dire a quest'ultimo: "È probabile... che quei poeti che ci hanno lasciato in eredità le loro opere e la loro idea di poesia, oggi sarebbero dei saggisti, scriverebbero in una eccellente prosa, umoristica e malinconica, piena di idee e di immagini, e cercherebbero di sollevare la prosa libera a quell'altezza artistica che una volta, tanto tempo fa, e da allora mai più, fu raggiunta dal verso". È un Berardinelli che, su questo presupposto dai risvolti anche biografici, si è posto da tempo a studiare la forma-saggio, della quale disvela una feconda tradizione non solo italiana. Il suo è atteggiamento bifronte: da un lato vorrebbe tentare una teoria e una tipologia del saggismo, come fa in "La critica come saggistica", che compariva già in un volume einaudiano, insieme ai lavori di Costanzo Di Girolamo e Franco Brioschi; dall'altro è, per esperienza diretta, conscio che è forse meglio limitarsi a precise descrizioni di singole esperienze, traendone linfa per un saggismo praticato più che teorizzato. E quel che avviene nel saggio eponimo del libro: qui Berardinelli si confronta con alcuni saggisti italiani, tenendo presente il lavoro di Giovanni Macchia, "Gli anni dell'attesa", ritenuto essenziale "per chi voglia capire meglio una certa 'famiglia' di saggisti italiani": la famiglia che include, ad esempio, Cecchi, Debenedetti, Praz, Solmi e lo stesso Macchia. E nelle descrizioni della prosa di alcuni di questi nomi, nei paragoni tra loro e altre e diverse esperienze di scrittura e di vita che Berardinelli dà il meglio di sé. Emozionante il corpo a corpo possibile instaurato tra Cecchi, "il nostro saggista letterario più accuratamente disteso e dispiegato, più paziente e flemmatico... curioso di tutto, a suo agio nella pluralità degli oggetti culturali", e Michelstaeder, "il saggista più estremo e adamantino del nostro Novecento"; un corpo a corpo intessuto di passaggi garboliani, dal quale viene fuori quel "qualcosa di rimozionale", sottostante all'aurea misura della prosa di Cecchi, che qui, quasi come si fa con un giallo, lascio alla vostra curiosità.
Anche il paragone tra Cecchi e Gramsci, "uno dei maggiori innovatori e inventori della prosa saggistica italiana", è molto acuto, come l'annotazione sulla paradossale (e tragica, per il secondo) ricezione delle proprie opere: "Mentre il saggismo evasivo, divagante, e disimpegnato di Cecchi disponeva di tutto lo spazio pubblico possibile, gli scritti di Gramsci, scritti impegnati in una tematica di fondamentale interesse pubblico, vengono elaborati in uno stato di solitudine forzatamente privato". E ancora, Serra viene colto "nel gesto di oscillazione fra lettura e sguardo che interrompe la lettura. Un leggere e scrivere col fiato sospeso...".
Mi viene in mente che per meglio comprendere il complessivo contesto e la disposizione mentale di "Tra il libro e la vita", titolo che vuole anche essere una descrizione "ovvia" del saggismo, posso ricordare una nota a "Il critico senza mestiere": si sperava, in quella nota, che nei seminari universitari i manuali di teoria della letteratura fossero sostituiti da opere come "I libri nella mia vita" di Henry Miller. Ecco, anche quest'ultimo lavoro di Berardinelli può essere letto come autobiografia di un lettore e, insieme, come biografia potenziale di un pubblico: l'allusa autobiografia di un lettore che si chiede cosa rimanga dell'estremismo letterario degli ultimi due decenni in Italia, che apprezza la poesia di Giovanni Giudici, e rimpiange il furore morale di Pasolini; un lettore che ha avuto la fortuna di seguire i corsi universitari di Giacomo Debenedetti, il cui ricordo gli rende ancora più evidente che tra la Ricerca e la Didattica della letteratura, "Quello che manca è la Conversazione"; un lettore che ha frequentato Elsa Morante negli ultimi suoi anni di vita e che s'è, soprattutto, abituato a considerare i suoi pensieri come i pensieri di un intruso, applicati "con costanza e quasi con testardaggine fin da ragazzo" alla "ricerca di un modo di vita che quotidianamente, un giorno dopo l'altro, mi impedisse di precipitare nella disperazione e nel disprezzo di me (sentimenti nei quali sa per esperienza che facilmente si precipita)" (ma questa citazione non la traggo dal libro, bensì da un saggio apparso su "Diario").
La biografia possibile, infine, di quella che viene definita una nonsocietà senza individui, ultimo esito della postmodernità, la quale "ha davanti a sé due elementari possibilità: capire dove si trova, a vantaggio di chi e a che prezzo viene tenuta in vita, o consumare il Mito della Filosofia di se stessa come inebriante livello raggiunto, il più alto, il più comodo e spettacolare nella storia dell'umanità". (E si tratta di due elementari possibilità che ricordano, anche nel modo in cui sono formulate, la chiusa de "Le città invisibili" di Italo Calvino; un autore che, con alcune riserve critiche interessanti da discutere, Berardinelli va scrutando con sempre maggiore attenzione, come dimostra il saggio dedicatogli sull'ultimo fascicolo di "Diario").
Il libro si chiude con uno studio su "Cosmopolitismo e provincialismo nella poesia moderna", nel quale, ad esempio, si legge che "la poesia moderna è moderna in quanto cosmopolita, ma è poesia in quanto provinciale". Mi pare che qui Berardinelli indichi una direzione nella quale si può lavorare in modo proficuo, tentando di valorizzare, "eventualmente, più l'universalismo spontaneo dei nostri provinciali, che il provincialismo modernizzato dei nostri cosmopoliti".
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