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Tra guerre e tornei. La corte sabauda nell'età di Carlo Emanuele I
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SEI
1991
260 p.
9788805052196

Voce della critica


recensione di Meriggi, M., L'Indice 1992, n. 1

Corre certamente un grande rischio chi scrive oggi un libro dedicato a una qualsivoglia corte dell'Europa moderna. Lo studio di Norbert Elias sulla società di corte francese, tradotto anche in Italia ormai una dozzina di anni fa, ha rapidamente fatto scuola, germinando una ricca fioritura di ricerche monografiche minori. Il cerimoniale e l'etichetta, il consumo vistoso, il fasto delle feste barocche, il processo di disciplinamento di un'aristocrazia già guerriera indebolita e impoverita dalla rivoluzione dei prezzi, sono tutti topoi caratteristici del sistema delle corti assolutistiche sui quali negli ultimi lustri la storiografia ha speso inchiostro forse anche oltre misura. Per quanto ricca possa essere la documentazione - e raffinata l'analisi -, l'eventualità di ripetere il già noto è insomma in questo genere di studi tutt'altro che remota. In essi si apprezzano, perciò, lo scarto dall'interpretazione generalizzabile e la specificità. È su questi aspetti dello studio di Merlin che ci piace qui soffermarci.
Negli ultimi anni, soprattutto anche se non solo grazie agli studi di Walter Barberis, la tradizionale lettura in chiave assolutista della storia sabauda in età moderna è stata messa vivacemente in discussione. È nel contesto del dibattito aperto da questo recente "revisionismo" che si inserisce "Tra guerre e tornei", enucleando una serie di temi di grande interesse.
La ricerca affronta l'età di Carlo Emanuele I (1580-1630). Sono i decenni segnati dal progressivo spostamento del baricentro della monarchia sabauda verso il Piemonte. Di questo fenomeno lo studio puntuale delle cariche di corte restituisce una nitida riprova: tra gli aristocratici che le ricoprono, infatti, non incontriamo se non una modesta componente di savoiardi. Questi ultimi preferiscono restare arroccati nei castelli e imboccano ora un percorso di provincializzazione che li porterà sempre più distanti da quella comunanza guerresca col sovrano che è stata in precedenza tratto caratteristico del loro ethos. È anche in questo modo che lo stato dei Savoia comincia a trovare un'identità geografica che è sin lì ad esso mancata.
L'espansione della corte come sistema significa anche la sua sedentarizzazione, l'abbandono graduale, da parte del sovrano, del costume di seguire con le sue "case" gli eserciti in azione. Eppure, più di un tratto della vecchia consuetudine marziale rimane radicato nella cultura cortigiana torinese, che ne viene caratterizzata in modo forte e specifico, come si può riscontrare - ancora a Seicento inoltrato - nella produzione dei letterati, degli storiografi panegiristi, dei trattatisti politici attivi, con malcerta fortuna, presso i Savoia; tra questi, Chiabrera, Marino, D'Urfé, Botero.
La politica di corte - la sola, avverte Merlin, concretamente perseguibile in uno stato ancora poco burocratico e molto patrimoniale - è del resto in gran parte politica estera e si risolve nei maneggi diretti a caldeggiare l'alleanza con l'uno o con l'altro degli schieramenti presenti sullo scacchiere bellico europeo. A Torino sarà alla fine il partito "spagnolo" ad avere la meglio su quello francese e a ritrarre peraltro dalla propria affermazione cospicui vantaggi di ordine materiale. In tal senso, però, non è del tutto vero che in quest'epoca non si dia anche una politica interna; essa consiste per l'appunto nell'acquisizione, da parte di alcune famiglie o di singoli esponenti di caste nobiliari e non, di vasti spazi di manovra attraverso il gioco diplomatico-clientelare praticato a corte.
A dispetto delle pretese del sovrano e però anche, mi pare, di alcune proposte interpretative offerte dall'autore di questo studio, è un assolutismo alquanto temperato quello che viene prendendo forma dalle pagine di "Tra guerre e tornei". Sì, come nel libro di Elias e nei molti altri che ne hanno seguito l'impostazione, anche qui ci viene mostrata una nobiltà impoverita, attirata a corte, investita di cariche cerimoniali o quasi-burocratiche - là dove corte e stato in gran parte ancora collimano - e infine tacitata nei suoi potenziali intenti sediziosi. Ma a corte - ci racconta l'autore - con le cariche non si guadagna. Anzi, semmai si spende, e non solo in termini di consumo vistoso. Il sovrano ha continuamente bisogno di prestiti in moneta sonante e nobili e trafficanti glieli concedono volentieri in cambio di feudi e di cespiti fiscali. Non tutta l'aristocrazia, dunque, è così povera come si vorrebbe. Soprattutto, si presenta largamente e intimamente contrattuale quella trama di rapporti tra fulcro e satelliti del sistema cortigiano che talvolta vien descritta unilateralmente come disciplinamento della nobiltà. Indubbiamente, dal trono ci si esprime talvolta con voce autoritaria e pretenziosa, soprattutto nei confronti degli interlocutori più deboli; come il comune di Torino, che dal tardo Cinquecento in poi perde privilegi e assiste muto alla reinvenzione della città e alla sua trasformazione in capitale barocca in funzione della crescita della corte e dello stato. Ma a corte si può anche contrattare. E il gioco degli ossequi formali si traduce in realtà in un rafforzamento di fatto dei nobili e anche di danarosi affaristi in quegli ambiti locali dai quali essi provengono e fuori dai quali la corte li attrae solo parzialmente. La residenza sovrana, con le sue luci e con il fasto delle sue feste, è insomma lo scenario di un gioco complesso, che, pur fornendo una prima architettura stabile al paese, non cancella il rilievo delle sue periferie geografiche e sociali.

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