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Tim Burton. Visioni di confine - Mauro Di Donato - copertina
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Tim Burton. Visioni di confine - Mauro Di Donato - copertina

Dettagli

1999
1 febbraio 1999
204 p., ill.
9788883192715

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NightUriel
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bè che dire semplicemente stile Tim Burton, i disegni simili a quelli per nightmare before christmas. Le storie macabre e affascinanti hanno una semplicità e una visione del mondo che in pochi altri autori "del mestiere" ho riscontrato. E c'è di buono che non è neanche lunghissimo, quindi va bene anche per chi non è un lettore assiduo. Magari non è un ottima idea per un regalo, ma è un ottima compagnia. Ma credo che per capirlo fino in fondo si debba vivere nel mondo che l'autore rappresenta, ovvero scuro, triste e a tratti fiabesco. Riesce a essere folle e a farti capire la sua follia. Queto è un genio, e la sua opera è geniale.

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Voce della critica


recensioni di Quaglia, M. L'Indice del 2000, n. 05

Perché in questa monografia - inserita nella collana "Cinema/studio" diretta da Orio Caldiron - si parla di "visioni di confine" a proposito di Tim Burton? Perché il cinema del regista californiano si situa al confine tra aspirazioni autoriali ed esigenze commerciali, in perenne equilibrio tra l'espressione di fermenti creativi personali e il ricorso alle codificate convenzioni hollywoodiane. Burton è uno di quei cineasti capaci di accogliere con disinvoltura le più eterogenee influenze e di abbattere le barriere tra cultura alta e bassa. Considerato dalla critica europea l'erede della tradizione cinematografica espressionista tedesca - lui che ha confessato di non aver mai visto Il gabinetto del dottor Caligari -, ricicla immagini dagli ambiti più disparati: televisione, fumetto, cinema, pittura, scultura. L'universo poetico che ne scaturisce risulta contemporaneamente "nero" e "grottesco": "nero" a livello di trama, anche se spiccano schizzi variopinti di colore acceso, "grottesco" sul piano dei movimenti e dei dialoghi dei personaggi. La sua opera può essere definita "gotica" in relazione al gotico del cinema dell'orrore degli anni cinquanta e sessanta: il Frankenstein che cita frequentemente nei suoi film non è quello letterario di Mary Shelley ma quello cinematografico di James Whale, e le ville maledette, del tipo Casa Usher, che si stagliano contro un cielo oscuro e percosso da fulmini, provengono dalle sbiadite pellicole di Roger Corman. I protagonisti delle sue storie sono spesso dei mostri, esseri tristi e sensibili imprigionati in corpi deformi, il cui principale elemento di diversità consiste nell'incapacità di adeguarsi a una società conformista e ipocrita, retta da regole e valori mediocri.
In film come Beetlejuice (1988), Batman (1989), Edward mani di forbice (1990), Tim Burton's Nightmare Before
Christmas
(1993) e Mars Attacks! (1996), risulta evidente che questi individui depositari, nel bene o nel male, di qualità eccezionali, non potranno mai confondersi con una massa rappresentata come ottusa e anonima. Sono infatti associati, dal punto di vista spaziale, a luoghi esclusivi e segreti, rifugi che ne rispecchiano il carattere e contribuiscono a caratterizzarlo. Questo non significa però che non siano animati dal desiderio di rompere il proprio forzato isolamento, spesso spinti in ciò dall'amore. Ecco allora che si apre un passaggio attraverso il quale il loro mondo e quello dei normali entrano in comunicazione. Si tratta tuttavia di una reciproca contaminazione che comporta squilibri da entrambe le parti. Al termine del percorso sono quindi quasi sempre costretti a rientrare al luogo di partenza, o con quel senso di rabbia e tristezza che accompagna ogni sconfitta, o nella consapevolezza che l'unica possibilità per ritrovare il proprio equilibrio è quella di ritornare nel proprio universo. La raggiunta situazione di stabilità non è però sufficiente a placare quel forte senso d'inquietudine che immancabilmente li spingerà a nuove fughe.

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