Tetano

  Troppa cattiva narrativa sull'adolescenza, che specula anche in modo involontario sul fortunato genere del romanzo di formazione, fa spesso dimenticare che raccontare il "bel tempo" significa fare i conti con l'avventura. L'avventura, intesa come un luogo nella mente e nel passato, con una buona dose di nostalgia, è il necessario peregrinare per crescere, il passaggio dove ferirsi e superare i traumi, la vera iniziazione. Uno degli esempi recenti più credibili di romanzo d'avventura e di iniziazione, allo stesso tempo, è Tetano dell'urbinate Alessio Torino. A Lanterna, un paesino immaginario dell'appennino marchigiano, nell'estate del 1982 un gruppo di ragazzi, per così dire outsider, intraprende la costruzione di una zattera (battezzata la Gran Troia) su un fiume, il Candigliano, sbarrato da una diga. A questi si unisce Tetano, un ragazzo a cui è stata tenuta nascosta con bugie e ipocrisie la morte sul lavoro del padre, avvenuta nella fabbrica-vetreria che incombe sul paese, il quale ha tradotto il suo disagio in una ferrea asocialità. Il traumatizzato Tetano è colui che alla fine sarà motore e protagonista inaspettato dell'azione e della sua risoluzione, mentre intorno a questa avventura parla il coro del paese, delle donne, mamme e nonne, e si aggirano boscaioli e cacciatori che come presenze spaventose minacciose abitano i boschi. Torino gioca con abilità con lo schema tipico del romanzo di formazione, dichiarando in modo esplicito le citazioni e i modelli: prima di tutto la zattera rimanda a Huckleberry Finn, mentre l'enigma, che sembra celarsi dietro ogni capitoletto, rimanda al clima dei romanzi horror di Stephen King come Stand by me e Il corpo, ma anche al meno ovvio, e non meno immediato, film di Davis Grubb La morte corre sul fiume. Piuttosto è il richiamo originale al "battello ebbro" di Rimbaud a stupire e restituire quel clima della giovinezza e della vivezza dello stile di questo romanzo. Tetano, del resto, è il racconto del rito di passaggio da un territorio di mistificazione e falsità, dove addirittura si cela goffamente il dolore e la morte di cui la metafora è la fabbrica del paese, a uno di conoscenza e verità. Il mezzo sul quale si raggiunge questo territorio è la zattera, un evidente archetipo da quella raccontata da Mark Twain che viaggia sul Mississippi a quella che porta Ulisse alla deriva sull'isola dei Feaci. Eppure Torino sembra suggerire una lettura diversa, sfuggendo alla definizione totale di romanzo di formazione: la diga che sbarra il fiume significa infatti l'impossibilità dell'avventura, tanto che la vicenda della zattera perde progressivamente importanza di pagina in pagina. Forse la strada è questa: in una prospettiva di contaminazione dei generi, si può rivitalizzare il genere, per paradosso, negando il genere stesso. Nicola VIlla