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Soavità e asprezza, incantata nostalgia e furore ecologista attraversano mondi popolati di animali che parlano filosoficamente e appaiono depositari di segreti perduti, la memoria materna dell'origine, il fulgido paesaggio primordiale, le vie della felicità. Lao Tsu e Walt Disney, Theodor Adorno e Timothy Leary presiedono ironicamente, e in pari misura, alle narrazioni di Julia Whitty, per anni documentarista e oggi autrice letteraria californiana, che intreccia i territori della zoologia e della morale, dell'etologia e della satira sociale per osservare la nostra società dal punto di vista della marginalità e dell'esclusione, con gli occhi dell'animale, appunto. Così, in un Ocean World tra i tanti della Florida o della California, gli animali sperimentano pratiche di boicottaggio, astenendosi dal volteggiare e rifiutandosi di apprendere nuovi esercizi; mentre nell'Africa australe, in Botswana, un giovane maschio di elefante, colpito a morte dal proiettile di alcuni bracconieri, impegna in una caccia formidabile una giovane guida Setswana, rivelando lo splendore e la vulnerabilità di mondi cui i visitatori occidentali, al tempo stesso pavidi e sospettosi, non riescono ad accedere se non attraverso le distorsioni del mercato dell'esotico e il turismo di massa.
Le grandi narrazioni naturalistiche che l'epoca coloniale e la storia delle esplorazioni hanno lasciato in eredità al mondo occidentale sembrano essersi dissolte per effetto dei processi globali: deforestazione, caccia e importazione di animali, mercificazione dei territori. Nessun lembo del pianeta è intatto, nessun animale "selvaggio" sopravvive, se non in cattività. Dal punto di vista zoologico, il mondo che Julia Whitty evoca è quello della "sesta estinzione", la prima interamente provocata da una specie, quella umana: un mondo povero di biodiversità, concentrata in interstizi o preservata in riserve, in cui prosperano poche specie, ratti e piccioni ad esempio, nostri commensali a proprio agio nelle grandi riserve alimentari costituite dalle città. Proprio perché umiliata e resa marginale, la natura acquista però una preziosa dimensione testimoniale, quasi escatologica: i grandi animali superstiti, gli elefanti, i leoni, le orche, le testuggini preservano entro di sé un meravigliosa antichità, una familiarità con l'origine. Sono propaggini temporali della Terra prima della comparsa umana, glorificati dalla continuità con i lussureggianti paesaggi di felci e palme, acque spumeggianti e foreste brumose del Pleistocene di cui noi abbiamo cercato ansiosamente la distruzione.
Non è quindi sorprendente incontrare Darwin nel ruolo di imberbe scolaretto, eccessivamente fiducioso della propria razionalità, teorico e nervoso, nel racconto Darwin in paradiso, forse il più psichedelico della raccolta. Trapassato, l'illustre naturalista cerca il segreto del divino e della felicità in un eden molto simile a una foresta tropicale. Non lo sostengono abilità verbali o dispositivi concettuali: suoi maestri sono invece tartarughe, ctenofori, alghe azzurre. La plausibile risposta alla sua indagine metafisica non giunge da una formula matematica, né da un trattato, ma dallo stato di innocenza degli organismi elementari, qualcosa come uno stato di grazia o levità, di completezza edenica. "E così, pensi che Dio sia un'alga azzurra?", chiede a Darwin un suo bizzarro interlocutore. "Tra le altre cose", risponde il Darwin ultraterreno, ormai disposto ad "assaporare il piacere di una mente libera".
Michele Dantini
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