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Ajkem Tzij, Tejedor de palabras, è il titolo che lo stesso autore ha dato all'antologia della sua opera poetica, già cospicua malgrado i suoi scarsi quarant'anni, e che ora si propone in italiano. Il fascino di questa poesia sta proprio nel rapporto d'intensa comunione fra l'uomo la natura, l'uomo e gli oggetti, l'uomo e i suoi simili, ancora molto forte in quella comunità indigena, come in tutte le società che rimangono legate alle proprie radici arcaiche, e che il poeta esprime con voce privilegiata della collettività stessa. Per il lettore europeo, e in genere per chi vive nella società moderna telematica e virtuale, in cui l'antica comunione è spezzata e il rapporto con gli antichi dèi rimosso o dimenticato, questa poesia arriva come un boccata d'aria pura a restituire il senso del tangibile e la forza emotiva del contatto e della comunione. Dice per esempio Ak'abal: «Se ti arrampichi su un vecchio cipresso/ e t'inerpichi fra i suoi rami,/ vedrai che la terra/ non è lontana dal cielo. // A Momostenango potrai toccarlo». E poi: «I colori dei nostri tessuti/ non stingono./ Invecchiano soltanto». E ancora: «Non è che le pietre siano mute:/ semplicemente stanno zitte». Spesso i vocaboli indigeni, insieme a certi regionalismi del Guatemala, rimangono nei testi spagnoli e italiani ecco perché il glossario come sostegni insostituibili, come puntelli di un disegno del mondo naturale in cui l'essere e la voce che lo nomina coincidono. I nomi degli uccelli, ad esempio, sono uguali alla riproduzione onomatopeica del verso di ogni singolo uccello: così la poesia che li rammenta è un coro di voci musicali, che evocano le immagini degli uccelli riproducendo contemporaneamente le loro stesse voci. Se poi è lo stesso Ak'abal a leggerla, allora chi l'ascolta ha l'impressione di ascoltare gli uccelli stessi, come miracolosamente trasportato in mezzo a un bosco.
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