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Difficile da catalogare questo bel libro di Susi Pietri: non è né un libro su Balzac né un libro su Stevenson ma, in una sua maniera un po' magica, proprio come quei "magici" raccontatori che furono i due autori cui il libro è dedicato, è insieme la fedelissima storia di una lettura (quella dello Stevenson lettore di Balzac, di cui non esisteva finora nessuna documentata ricostruzione critica) e una rivisitazione illuminante di un dilemma cruciale per il genere romanzo dell'Ottocento. I due Balzac che ricorrono continuamente nell'opera di Stevenson, senza mai ricomporsi in un'immagine unica (il Balzac "minatore sepolto sotto una frana", ossessivamente determinato a portare alla luce la grande opera che doveva rappresentate la totalità del mondo, e il Balzac flâneur e drolatique, "mago" e principe dei narratori), sono infatti i due poli di un'ambivalenza che segnò il destino di romanziere di Stevenson, ma il cui germe era già lì, nelle riflessioni e nella pratica narrativa dell'autore della Comédie humaine. Ma sono anche, nello stesso tempo, i due estremi opposti dell'identità del genere romanzo nell'Ottocento, sempre oscillante tra l'aspirazione a incarnare la summa di tutti i saperi necessari a comprendere la modernità, da una parte, e la vocazione a incantare con la magia del racconto, dall'altra. Il romanzo come studio, lavoro, analisi e il romanzo come piacere dell'abbandono al meraviglioso di storie inconsuete: l'eterno dilemma tra novel e romance.
Ma la storia più appassionante che Pietri ha da raccontare la affida a due magistrali analisi di The Wrecker e The Bottle Imp come meditazioni su, e riscritture di, opere e temi balzachiani. Lì Stevenson mostra sottilmente tutti gli inganni del desiderio che minacciano lo statuto del genere puro del novel, e insieme la possente minaccia che il potere diabolico ma uniformante del denaro costituisce per il genere puro del romance nel mondo moderno. Cosicché, dopo avere imparato sulle orme di Balzac che se il "primo narratore fu un dio" il meraviglioso stava ormai scomparendo dal mondo ("Più il mondo invecchia, più la narrazione diventa un'opera tormentosa e penosa"), Robert Louis Stevenson, suo allievo fedele e infedele insieme, dalla sua isola dell'arcipelago Samoa, dove gli indigeni lo chiamavano ormai Tusitala, "il raccontatore di storie", era arrivato infine a una conclusione. Aveva ragione Tembinok, il terribile re indigeno che resisteva fieramente ai colonialisti britannici, quando gli rispose in che cosa consistesse per lui l'essenza di un racconto. "Degli innamorati, e degli alberi, e il mare. Ma non come se fosse tutto vero. Tutto come invenzione, menzogna", gli aveva detto. È l'essenza dello Stevenson romanziere degli incanti dei Mari del Sud. Ma Pietri ci mostra che è anche, e soprattutto, il punto d'arrivo di una lucidissima riflessione critica, insieme a Balzac e su Balzac, che l'aveva portato (quando la morte lo colse all'improvviso, a quarantaquattro anni) a convincersi che, se il meraviglioso stava scomparendo dal mondo, era però destinato a sopravvivere finché ci fosse stato qualcuno capace e disposto all'incanto. Come i bambini o gli indigeni di fronte ai miracoli semplici della natura, o i maghi raccontatori di storie e i loro ascoltatori disposti a lasciarsi incantare dalla magia. Proprio come era successo, all'inizio della storia, al giovane Stevenson lettore del gran mago Balzac.
Enrica Villari
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