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Terra del mio sangue - Antjie Krog - copertina

Descrizione


Fra il dicembre 1995 e l'estate 1998 la Commissione per la verità e la riconciliazione, voluta da Nelson Mandela e presieduta da Desmond Tutu, ha messo in Sudafrica i carnefici di fronte alle proprie vittime. Ha preteso dai primi la verità, dai secondi l'autorizzazione al perdono. E soprattutto ha permesso a un intero paese di scongiurare quel bagno di sangue su cui molti avrebbero giurato all'indomani del crollo del regime razzista. Antjie Krog, poetessa e giornalista, che di quella commissione ha fatto parte e ne ha trasmesso i lavori alla radio, racconta in questo libro due anni di testimonianze crude e di confronti drammatici. Ma racconta anche la propria storia di madre e scrittrice bianca coinvolta e messa in discussione da un'esperienza così dura. Il libro da cui è stato tratto il film "In My Country" di John Boorman, con Juliette Binoche e Samuel L. Jackson.
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Dettagli

2006
29 maggio 2006
525 p., Brossura
9788888389608

Voce della critica

Istituita da Nelson Mandela e presieduta dal vescovo Desmond Tutu, la Commissione per la verità e la riconciliazione fu il primo clamoroso atto politico del Sudafrica del post apartheid e allo stesso tempo un gigantesco rito catartico che coinvolse l'intera nazione. Nel periodo compreso tra la fine del 1995 e il 1998, nelle varie città in cui si svolsero le sue udienze itineranti, la Commissione mise in scena il drammatico confronto delle vittime di abusi contro i diritti umani e di crimini razzisti con i loro carnefici, i quali solo dopo avere reso piena confessione avevano la possibilità di chiedere il perdono e quindi l'amnistia. L'inedita prassi e i principi che la ispirarono, in particolare l'ideologia della riconciliazione, sono stati successivamente criticati dentro e fuori il Sudafrica, ma allora apparvero come l'unica via possibile a garantire la nascita di una nuova identità per il paese finalmente libero dalla discriminazione razziale. Alla base della teologia della riconciliazione di Tutu (Non c'è futuro senza perdono, Feltrinelli, 2001) si trova una forma di africanizzazione del motivo cristiano occidentale del perdono, l'ubuntu, profondamente radicato nella cultura nera, secondo cui un individuo è tale solo in quanto parte di una comunità di esseri umani. Sentimenti come l'odio e la vendetta danneggiano l'intera comunità e dunque il perdono non è un gesto altruistico ma l'unico modo di mantenere la propria umanità anche quando si è subito un grave torto. La formula cartesiana "Penso, dunque sono" è riscritta da Tutu come "Sono perché appartengo".
Terra del mio sangue è il reportage di Antije Krog delle udienze della Trc (Truth and reconciliation commission), fatto all'epoca per la radio sudafricana, la Sabc, e subito raccolto in un volume intitolato Country of My Skull (1998). L'opera ottenne in tempi rapidi larga popolarità a livello internazionale aggiudicandosi prestigiosi premi di giornalismo. Il ritardo con cui il libro giunge in Italia è sintomatico della disattenzione o dell'indifferenza della grande editoria nei confronti di opere ritenute incomprensibili per il pubblico italiano. Bisogna essere grati a un piccolo editore come Nutrimenti che ha voluto farsi carico di "traghettare" il volume di Antjie Krog, rendendolo ora disponibile nella bella traduzione di Marina Rullo e con la cura competente e appassionata di Maria Antonietta Saracino, che nella postfazione ricostruisce il contesto politico e sociale da cui scaturì la Commissione, spiegandone la necessità e l'impatto, potere fare i conti con il passato senza negarlo, ed evitare allo stesso tempo un bagno di sangue.
Antije Krog, coordinatrice dell'equipe radio, non è una semplice giornalista, ma la più nota poetessa afrikaner, con otto volumi di poesia alle spalle e la fama di intellettuale impegnata. Il suo resoconto non è imparziale, non si ferma ai fatti né alla trascrizione delle deposizioni: un racconto soggettivo, carico di emotività e di dolore, in cui l'identità di chi scrive, una sudafricana bianca, donna e madre, è continuamente chiamata in causa a esprimere sensi di colpa, inadeguatezze, vergogna, angoscia; un racconto che tuttavia sa rendere, con l'immediatezza e la forza della cronaca diretta, la sofferenza e le voci di una terra lacerata, la terra del suo sangue. Davanti al pianto che interrompe una delle prime deposizioni, quella di Nomonde Calata, vedova di un attivista politico ucciso brutalmente dalla polizia, e alla richiesta del vescovo Tutu di aggiornare la seduta di dieci minuti, Krog scrive: "Per me questo pianto è l'inizio della Commissione per la Verità. La sigla iniziale, il momento decisivo, il suono che esprime l'essenza di tutto il processo. Quel suo vestito vivace arancione e rosso, il modo in cui si è gettata all'indietro e quel suono… quel suono… continuerà a ossessionarmi per tutta la vita".
Quel "suono" è il racconto delle migliaia di vittime dell'apartheid, per lo più parenti delle vittime, i sopravvissuti, "gente comune, gente che si incontra ogni giorno per la strada, in autobus e sul treno. Gente che porta sul corpo e sui vestiti i segni della povertà e del duro lavoro". Per la prima volta nella storia del paese le loro voci spezzate, nelle lingue nazionali, dominano i notiziari. Tra loro c'è chi ha dovuto identificare ossa ingiallite, corpi straziati, come la madre di Guguletu che ha dovuto riconoscere il proprio figlio dai piedi, chi ha perso la virilità per effetto delle torture, chi ha visto distrutta la sua vita familiare, chi ha visto bruciare la madre con un copertone intorno al collo, e non ha potuto fare niente per alleviarne la pena. Matidza, il più anziano testimone, nato nel 1895, ha perso casa, mobili e bestiame, ma rivuole i suoi alberi. Una domanda risuona senza risposta: "Che razza di persona, che razza di essere umano tiene la mano mozzata di un uomo in un barattolo sulla scrivania? che razza di odio trasforma gli uomini in animali?", una domanda che ritorna di frequente tra le vittime. Se lo chiede a volte anche il torturatore che racconta il tormento della sua vita privata a causa di quello che riteneva l'adempimento di un compito necessario alla difesa della patria.
Via via che si susseguono le testimonianze, via via che Krog attraversa il paese da una città all'altra, cresce il suo senso di perdita, il suo estraniamento, la sua disperazione: "Una settimana dopo l'altra, da un edificio anonimo all'altro, da una città polverosa e dimenticata da Dio all'altra, le arterie del nostro passato stillano quel loro singolare ritmo, tono, immagine. Non è possibile sbarazzersene. Mai". La parola "verità" è diventata per lei un termine difficile da pronunciare e da scrivere "la parola 'Verità' mi mette a disagio… Non sono fatta per raccontare della Commissione… Né la verità né la riconciliazione fanno parte della mia grafite… non riescono a penetrare nella mia anarchia. Si strozzano con il tradimento e la rabbia, precipitano dal mio rifiuto di essere morale. Scrivo versi spezzati". Segno evidente del suo forte disagio è la scelta di scrivere per la prima volta in inglese, un modo per prendere le distanze anche dalla sua lingua, l'afrikaans: "È stato detto apertamente che l'afrikaans è il prezzo che gli afrikaner dovranno pagare per l'apartheid. Non è questo il dibattito che si è trascinato per anni a Robben Island: cosa ne facciamo della lingua dei Boere?"; e ancora: "Da dove verranno le parole adesso? Per noi. Noi che siamo sospesi tremanti e malati in questo spazio silenzioso del passato afrikaner? Cosa si può dire? Cosa diamine si può fare con questo carico di scheletri senza più corona, origini, vergogna e ceneri?". È così che "la storia scivola dalla politica alla lingua".
Il Sudafrica è anche la terra di milioni di nativi di origine boera – i coloni olandesi originari – e dunque, quasi naturalmente, complici di quel potere "illegittimo", benché legittimato dall'ideologia e dal sistema politico dell'apartheid, che ha potuto per anni perpetrare crimini orrendi contro persone inermi, donne e bambini. Ma è pur sempre la "terra del suo sangue", il paese di un'infanzia felice, così spesso descritta nella sua poesia, da cui si sente ora estraniata, costretta a prendere le distanze e a mettere in discussione la sua identità di sudafricana bianca.
A parlare non sono solo le vittime: parlano anche i leader politici, in primo luogo Frederik Willem de Klerk, leader del Partito nazionale che ha governato il paese dal 1960 in poi, e che ha avviato il paese al superamento del sistema dell'apartheid, costretto ad ammettere di avere autorizzato strategie "non convenzionali", ma che queste non comprendevano omicidi, stupri e aggressioni. Ma anche il vecchio e arrogante Pieter Willem Botha, ex presidente dello stato, che dopo avere rifiutato varie volte di comparire si presenta ostentando disprezzo e irritazione nei confronti della Commissione. Mentre ribadisce che la parola apartheid significa solo "buon vicinato" e si rifiuta di chiedere scusa per avere diretto i famigerati squadroni della morte, Krog lo guarda negli occhi: "E capisco che quest'uomo (…) non è rimbambito, vecchio o sofferente… è un imbecille… E noi siamo stati governati per decenni da questa stupidità".
Parlano assassini e torturatori per descrivere a sangue freddo omicidi, stupri e torture di ogni tipo: come Dirk Coetzee, il feroce capo della polizia, che davanti alla madre di un ragazzo bruciato racconta di come le hanno "arrostito" il figlio; o il confronto agghiacciante tra il capitano Jeff Benzien e Tony Yengeni, uno dei dirigenti dell'Anc, con la dimostrazione pratica della tortura del sacchetto bagnato in testa. C'è chi si pente, come l'agente William Harrington, che crede di liberarsi dai propri fantasmi confessando di avere aggredito più di mille persone nei due anni e otto mesi del suo servizio in polizia, o come Wouter Mentz, che si strappa i capelli e racconta il proprio inferno di assassino: "Certe volte non rincasavo neppure, tornavo la mattina dopo, quando sapevo che mia moglie e mia figlia erano già uscite… perché non puoi, vorresti lavarti sei volte per togliertelo [il sangue] di dosso". Parla infine, in una sequenza tra le più sconcertanti, Winnie Mandela, l'indomita Madre della patria, coinvolta in abusi e delitti ai danni di giovani attivisti neri, che Tutu dovrà "supplicare" di chiedere scusa. Ma c'è anche chi rifiuta di "umiliarsi" davanti alla Commissione, come l'ascaro Joe Mamasela, famigerato attivista dell'Anc e grande amico di Winnie Mandela, che Krog va a intervistare in un albergo a cinque stelle.
Non è possibile uscire indenni da una simile esperienza e i giornalisti, gli interpreti e i tecnici che hanno dovuto sottoporvisi per un tempo prolungato sono a pezzi fin dalle prime settimane, mostrano gli stessi sintomi delle vittime. "Vi sentirete impotenti, senza aiuto, senza parole", li avevano avvertiti gli psicologi. Per potersi difendere i giornalisti smettono di seguire i lavori nelle sale delle udienze; lo fanno dai monitor messi a disposizione, così da ridurre l'impatto di tanto dolore. Appena qualcuno scoppia a piangere, si mettono a scrivere, a fare scarabocchi sui fogli. Dormono una o due ore per notte, mangiano solo cioccolata e patatine, anche chi ha smesso di fumare da anni, ricomincia. "Mi sveglio in letti sconosciuti con le labbra spellate e sporche di sangue… e pezzi di interviste che mi urlano nelle orecchie… Tutto questo non dovrebbe ispirare alcuna poesia. Che possa cadermi la mano se scrivo un solo verso su tutto questo".
Con Terra del mio sangue Antjie Krog ci ha dato un documento storico di grande rilevanza e insieme una grande prova letteraria che sa declinare la sofferenza e le voci della sua terra in linguaggio intimo come quello della poesia. Da collocare accanto ad alcune delle testimonianze più sconvolgenti di questi ultimi anni, come In quelle tenebre di Gitta Sereny (Adelphi, 1994), Preghiera per Černobyl' di Svetlana Aleksievič (e/o, 2002) e Gomorra di Roberto Saviano (Mondadori, 2006).
  Paola Splendore

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