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Descrizione


Il Rinascimento, presentato abitualmente come l'età dell'emergere del sapere scientifico, è anche "tempo di maghi" un tempo che proietta la sua ombra persino su quest'epoca, così razionale e disincantata, ma che pure conosce miracoli e oroscopi, fatture e filtri d'amore. Paolo Rossi, storico della scienza italiano, mostra come l'impresa scientifica abbia liberato la tecnica da ogni ipoteca magico-prodigiosa, anche se la tentazione del magico è ancora oggi in agguato.
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Dettagli

2006
6 febbraio 2006
VII-347 p., Brossura
9788860300232

Voce della critica

Una lunga fedeltà: si potrebbe riprendere il titolo dato da Gianfranco Contini al suo più autorevole libro su Eugenio Montale per descrivere l'ultimo saggio di Paolo Rossi. Una fedeltà ormai cinquantennale al tema di fondo che percorreva il suo primo lavoro, ossia il passaggio dalla magia alla scienza, durante il secolo che va dalla metà del Cinquecento alla metà del Seicento. Un passaggio che ha un punto di partenza e uno di arrivo molto ben definiti, ma che è invece descritto come estremamente intricato e ricco di sfumature nelle sue tappe intermedie. Da un lato c'è dunque la magia: un universo mentale in cui tutto è possibile, in cui tutto spiega tutto e rinvia a tutto, in cui la distinzione soggetto-oggetto non è ancora completamente costituita; una forma di pensiero, fondata sulla metafora e sulla logica della partecipazione, che fa del sapiente un sacerdote, ossia un essere che, grazie a complesse cerimonie di iniziazione riservate a pochi eletti, si distacca dal resto degli individui per avvicinarsi alla sfera del divino. Dall'altra la scienza, un sapere che coniuga dimostrazioni ed esperienze e che cerca di codificare il loro rispettivo uso; un sapere che si vuole come progressivo e collettivo, ossia si costruisce su quanto fatto da altri e si sottopone al vaglio della discussione altrui, arrivando a creare dei luoghi specifici in cui ciò possa avvenire; un sapere che è accessibile a chiunque si limiti a esercitare correttamente le proprie facoltà naturali e che rimane costantemente al di fuori della sfera del sacro. All'interno di questa contrapposizione, Giordano Bruno rimane dalla parte della magia, insieme a Cornelio Agrippa, Girolamo Cardano, Marsilio Ficino, Francesco Patrizi, Tommaso Campanella e Giovan Battista Della Porta, mentre Francis Bacon si situa in quella della scienza, in compagnia di Robert Boyle, René Descartes, Johannes Kepler, Galileo Galilei, Isaac Newton e Gottfried W. Leibniz.
Va subito chiarito che, in tutta la sua lunga carriera di studioso e anche in questo suo ultimo lavoro, Paolo Rossi ha sempre sostenuto e dimostrato che, nel corso della rivoluzione scientifica, il passaggio dalla magia alla scienza non si presenta come un processo che avvenga in maniera compatta e univoca. Praticamente tutti i grandi padri summenzionati accettano questo o quello degli elementi costituitivi della cultura che li precedeva, anche se spesso, ma non sempre, ne mutano completamente il segno: le divergenze tra di loro si possono leggere anche come dissensi su cosa far permanere e cosa mutare rispetto al passato. Un'analisi esemplare e brillante di questa commistione, ma anche delle differenze che, nonostante tutto, separano chi appartiene ancora a pieno titolo al mondo rinascimentale e chi fa parte della modernità, è svolta nel saggio dedicato ad alcuni elementi della cosmologia di Patrizi e di Kepler. Entrambi rifiutano un'astronomia che si presenti come un mero strumento matematico in grado di predire la posizione degli astri, a favore di una scienza che invece sia in grado di descrivere veramente la realtà e si colleghi strettamente con la fisica; entrambi sono fortemente segnati dal platonismo; entrambi negano l'esistenza di sfere celesti solide, che trascinino le stelle nel loro movimento rotatorio, e attribuiscono invece il moto degli astri alla presenza di anime motrici (pur nutrendo dei dubbi in proposito fin dal 1609, solo nel 1625 Kepler abbandonò definitivamente questa ipotesi). Ciò che li separa è l'ostinazione con cui Kepler cerca e analizza le variazioni quantitative delle forze che operano sugli astri: i risultati di queste indagini non solo lo inducono a disegnare una forma ellittica, e non circolare, per le orbite dei pianeti, ma anche a eliminare la teoria delle anime motrici, in favore di una forza di tipo magnetico.
Quest'impianto generale sottende però un intento polemico: Rossi si oppone a una specifica, errata concezione del passaggio tra la magia e la scienza che verrebbe oggi adottata dalla stragrande maggioranza degli interpreti del pensiero di Giordano Bruno. Attraverso un ridimensionamento del ruolo della magia nella filosofia di Bruno, letta per di più come pratica del tutto rientrante all'interno delle operazioni naturali, si farebbe del filosofo italiano un pensatore moderno o perfino un precursore di forme di razionalità che si sono affermate nella scienza del Novecento. Di contro, Rossi mostra che la magia è ben radicata nell'impianto filosofico bruniano; che in essa operano anche forze superiori all'intelletto umano, ossia i demoni; che l'immagine del sapiente coincide con quella del mago e ne fa il portatore di conoscenze arcane e del tutto superiori a quelle del volgo. Ne consegue che in nessun modo Bruno possa essere annoverato tra i fondatori della modernità.
La polemica aiuta a chiarire i presupposti storiografici e le scelte di fondo, ed è dunque feconda per il lavoro dello storico; ma a volte comporta qualche semplificazione inevitabile, come quella che fa coincidere il Rinascimento con la magia e l'ermetismo, la modernità con la scienza. Per quanto attiene la filosofia di Bruno e la sua collocazione nella storia del pensiero, dalle premesse storiografiche di Rossi derivano due conseguenze. Una specifica, che riguarda la possibilità di arrivare a conclusioni su che tipo di magia Bruno accolga nel suo pensiero e su che ruolo essa abbia all'interno del suo percorso intellettuale. Anche all'interno del tema della magia vengono sottovalutate le differenze cospicue che separano Bruno dalle sue fonti. Per lui può valere quel che Rossi dice di Newton: anche quando si nota la ripresa di un certo tema, questo viene inserito in un contesto filosofico che ne cambia completamente il senso (per esempio: i demoni ci sono negli scritti bruniani, ma in un mondo dominato dal monismo sono lontanissimi dall'avere caratteri simili a quelli del demonio cristiano; in generale, riesce difficile pensare alla presenza del sovrannaturale nell'universo bruniano).
Ma l'impostazione di Rossi ha anche una conseguenza generale. Appare convincente quando insiste sul fatto che, come nel caso di Patrizi, profonde differenze separano il Nolano dai rappresentanti della rivoluzione scientifica perfino quando c'è un accordo relativo su certe teorie, come l'interpretazione realista del copernicanesimo: in questo, come sempre, l'uso della categoria di "precursore" è effettivamente da abbandonare. Tuttavia, se chi studia Bruno ritiene che possa essere per certi versi inserito tra i pensatori che hanno contribuito al nascere della filosofia moderna, è perché nelle sue opere si trovano temi come la già menzionata adesione al copernicanesimo (con quanto di simbolico e fondante per la modernità questa scelta ha assunto dopo il rogo in Campo dei Fiori e i processi galileiani); l'idea che l'universo sia infinito e costellato da infiniti sistemi solari, i cui pianeti sono abitati; il radicale rifiuto dell'antropocentrismo; l'idea che esista una sostanziale omogeneità tra l'essere umano e gli animali (per Bruno, il serpente è intelligente quanto noi, solo che, non avendo le mani, non può concretizzare in opere questa sua intelligenza). Certo, Rossi ha ragione, Bruno non è Bacon: per il Nolano pochi sono i veri sapienti, e ancora meno i furiosi eroici, quelli che riescono a vedere Diana nuda, ossia la divinità così come si manifesta nella natura; ma questa differenza non ha nessuna base ontologica e si dissolve con la morte (non c'è spazio per la concezione canonica dell'immortalità dell'anima umana nella filosofia di Bruno). Soprattutto, i veri nemici non sono gli incolti, bensì chi crede di essere sapiente e non lo è: i pedanti. Sono, questi, elementi della storia intellettuale ben noti a Rossi, che non di rado ha dato su alcuni di essi importanti contributi.
Sul versante del pensiero scientifico, Rossi analizza finemente quali siano gli elementi comuni che, al di là dei contrasti a volte molto netti, accomunano praticamente tutti i grandi protagonisti della scienza e della filosofia tra Seicento e Settecento. Si nota una generale convergenza su quali caratteri debba avere lo scienziato (o il filosofo: in alcuni casi le cose coincidono) ideale: è una persona come le altre che, grazie all'applicazione costante ed esatta del proprio metodo, arriva a conclusioni certe e divulgabili all'intera umanità, conclusioni che poi saranno la base per ulteriori avanzamenti del sapere. Come tutti gli ideali, anche questo a volte è stato smentito nella pratica: Descartes e Newton tennero per decenni le loro opere nel cassetto, senza sentire il bisogno di comunicare le loro scoperte, se non parzialmente e a una ristretta cerchia di amici; le polemiche scientifiche e filosofiche sono vivacissime e feroci anche nel Seicento, e spesso si ha l'impressione che il loro scopo sia mettere a tacere e ridicolizzare l'avversario, oltre che arrivare alla verità. Ci auguriamo che la grande cultura e l'acume storiografico di Paolo Rossi ci illuminino in futuro anche sulla complessa applicazione degli ideali sottesi dalla rivoluzione scientifica.
  Antonella Del Prete

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