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Dettagli

2000
1 gennaio 2000
224 p.
9788872852316

Voce della critica


recensione di Ortoleva, P., L'Indice 1992, n. 1
(recensione pubblicata per l'edizione del 1991)

Un titolo dal suono antico, e letterario (noi scriviamo sui notes, al massimo, il taccuino è quello di Sherlock Holmes, o quello d'oro di Doris Lessing): che è evidentemente frutto di una scelta di gusto. In realtà, infatti, non è un libro di appunti n‚ di note, n‚ di schizzi, ma una raccolta di articoli che Portelli ha pubblicato nell'arco di circa un decennio, quasi tutti sul "manifesto", in qualche caso altrove, ad esempio sui "Giorni cantati", la rivista di cultura orale, culture popolari e culture di massa di cui è da anni l'animatore.
Sarebbe forse troppo indulgente dire che non si sente l'origine frammentata del libro, qua e là anche occasionale. La si riconosce in qualche ripetizione (curiosamente soprattutto delle tesi meno convincenti, come quella secondo cui la religiosità americana dovrebbe la sua forza soprattutto al vuoto dell'azione politica) e in qualche ridondanza. Ma il volume è montato con cura, e viene da dire con astuzia: del resto Portelli stesso aveva tentato anni fa in un libro più ambizioso e molto coraggioso, anche se probabilmente non del tutto riuscito, la storia orale di Terni intitolata "Biografia di una città", di costruire un intero affresco storico esclusivamente per mezzo del montaggio; ed è un intellettuale singolarmente attento alle strutture del discorso.
All'inizio, e alla fine, ci sono le osservazioni dirette, che chiamerei non tanto ''appunti di viaggio", quanto reportage; solo all'interno di questa cornice si trovano i testi scritti lontano dall'America, gli interventi in particolare sulla musica popolare e di massa, ma anche sulla vita politica statunitense. L'America vista ed esperimentata direttamente si alterna così con quella "mediata", dalla musica, dai giornali, dai romanzi.
La scelta di cominciare e finire con il viaggio, quello vero, con il racconto delle esperienze di un italiano in America, risponde a uno degli intenti essenziali del libro, un intento distaccato e letterario come il titolo, aristocratico (pur nell'ostentato populismo dell'autore): quello di insegnare a viaggiare in America, a capire l'America, a gente che ne sembra costituzionalmente incapace, la generazione di Portelli e quelle immediatamente successive, che dopo la nuova sinistra hanno improvvisamente "scoperto l'America". Sono questi (più che gli stessi aspetti disumani della vita americana) l'obiettivo polemico di Portelli: oggetto di una critica feroce, espressa soprattutto in articoli dei primi anni ottanta, ma ancora mordente.
Portelli non ha nulla contro il turismo di massa n‚ contro gli 'inclusive tour', e lo fa capire in un passo su Disneyland che è quasi estremo nella sua equanimità: "Con la scusa di portarci i bambini andiamo tutti a Disneyland. Non manca mai di entusiasmarci. Solo alla fine di un'intensa giornata mi accorgo di non avere mai mosso un passo se non seguendo istruzioni... E lasciandoti trasportare attraverso avventurosi paesaggi ammiri l'animazione straordinaria, un'illusione perfetta". No, ciò che lo irrita, fino all'ingiustizia a volte, è l'entusiasmo cretino del turismo giovanile ''post-rivoluzionario'', ma anche il "filoamericanismo piccoloborghese, conservatore e un po' cinico", che salda "il mito postmoderno dell'America società dello spettacolo... con il pregiudizio dei nostri nonni sugli americani creduloni, totalmente permeabili ai messaggi dei media
A questo insieme di modi sbagliati di guardare, e di viaggiare, Portelli applica un'etichetta micidiale "Innocenti all'estero", secondo l'immortale espressione coniata da Mark Twain per i turisti americani in Europa, sono ora gli italiani che credono di capire l'America, e non capiscono nulla. Il rovesciamento di prospettive così proposto costituisce per certi aspetti la morale del libro. Per oltre due secoli, ciò che ha reso per definizione "innocenti" gli americani in contesto europeo, e viceversa, altrettanto per definizione, non-innocenti gli europei in America, è stata, naturalmente, la storia. Gli europei che visitavano l'America vi cercavano, di volta in volta, il futuro, la barbarie, il nulla, ma sempre alla luce di una propria tradizione secolare, di un pieno di passato cui in America corrispondeva un vuoto. Se gli europei che visitano l'America oggi recitano loro la parte degli "innocenti" o meglio degli ignoranti, è probabilmente perché questa differenza si è attenuata, se non addirittura rovesciata. Il libro di Portelli è un segno, non l'unico (un altro è il bel 'survey' dell'"Economist" di fine ottobre, significativamente intitolato "America, the Old Country") di una sensibilità nuova che si afferma, quella che dopo due secoli di "modernità" riconosce che gli Stati Uniti hanno una continuità di tradizione assai più evidente e riconoscibile di quella che ritroviamo in molte società europee. "Gli americani" continuano a saper poco o nulla del mondo: c'è nel libro la storia deliziosa degli operai Shell di una cittadina del sud che protestano per l'esposizione della bandiera dell'Olanda, "paese comunista"; ma la società americana è radicata nelle proprie tradizioni.
È con queste tradizioni, soprattutto, che Portelli manifesta il suo rapporto di odio-amore, rivendicando in ogni caso il dovere di conoscerle per comprenderle, rifiutando i due pregiudizi di base che fondano sia gli antiamericanismi sia i filoamericanismi di marca ideologica (con la loro incredibile fluidità dal punto di vista degli schieramenti, per cui oggi la bandiera dell'"anti-imperialismo" è sorretta dalle riviste della nuova destra, ma sta ricomparendo anche nel "manifesto", e il filoamericanismo più estremo si legge su "Micromega"): il primo è che l'America sia una società tutto sommato semplice, intuibile o intuitiva, comprensibile come si capisce un'immagine figurativa o un calcolo aritmetico non astruso, e che sia sufficiente passarci qualche giorno per carpirne i segreti, il secondo è, appunto, che un segreto dell'America ci sia (mentre nessuno più accetterebbe di riconoscere l'esistenza di un "principio", o di un segreto dell'Italia); e che in quel principio unico e unitario stia ciò che rende l'America diversa da tutto il resto del mondo. È questo l'eccezionalismo: con la convinzione che gli Usa siano un paese speciale (lo sono come tutti forse anche un po' di più), ma la convinzione che lo siano per una loro speciale natura, che poi, gira e rigira, comporta sempre l'aspettativa di uno speciale "destino", salvifico o catastrofico.
Per fare giustizia di quest'ultimo pregiudizio, Portelli usa una tecnica che gli è consueta, prende le mosse dalla cultura popolare italiana, anzi laziale-umbra, quella a cui lui stesso appartiene, per trarre aneddoti, o verità quasi proverbiali, da applicare all'America: "Anni or sono, facendo l'aspirante etnologo, andai a fare interviste ai pellegrini al Santuario di Vallepietra, nel Lazio meridionale. Chiesi se avevano mai visto miracoli e un fedele mi riferì il seguente prodigio: una roccia, staccatasi dal picco che sovrasta il santuario, era caduta addosso a un venditore ambulante [un peccatore, evidentemente] il quale, anziché salvarsi come sarebbe stato naturale in un luogo tanto speciale, morì schiacciato... Il verificarsi della normalità, anziché smontarla confermava la percezione mitica della eccezionalità del luogo. Ho ripensato spesso al miracolo di Vallepietra leggendo i resoconti dei viaggiatori e corrispondenti italiani sull'America sempre tesi a mostrarne la prodigiosa diversità e sempre pronti ad uno stupore raddoppiato ogni volta che scoprivano la normalità".
L'America si svela davvero, questa è la sua convinzione, solo a chi non la riconosce come "un luogo tanto speciale", a chi è disposto ad ammettere e individuare la sua somiglianza con noi anche dove le distanze paiono abissali, e viceversa, a cercare la diversità anche dove è ovvio che "non possiamo non dirci americani". Tra l'altro, l'applicazione rigorosa di questo stesso principio porta l'autore a superare il manicheismo che era stato proprio delle interpretazioni di nuova sinistra (e che è tuttora proprio di tanta cultura "alternativa" statunitense) tutte intente a isolare un'America "altra", diversa per razza, per emarginazione, per non partecipazione ai privilegi, dal 'mainstream' oggetto di giudizi senz'appello.
A Portelli, ancor più che i neri e i portoricani, interessa lo spirito ribelle che è tuttora vivo nella classe operaia bianca, soprattutto nei minatori, e che convive con il loro essere spesso fondamentalisti, ferocemente anticomunisti, fierissimi della loro americanità. Sono le incrinature nascoste nell'apparente normalità conformista che lo incuriosiscono e lo affascinano, e che trasmette in reportage tutti racconto e fatti; ma per comprenderle deve fare riferimento proprio a quelle tradizioni rigidamente locali (oppure etniche, o tutte e due le cose) che le immagini diffuse dell'America negano, o riducono a banalità caricaturali, come l''hillbilly' o i contrasti tra newyorkesi e californiani.
Per altri aspetti, questo filtro è il frutto estremo e maturo di trent'anni di odio-amore con l'America proprio della nuova sinistra italiana, o almeno della sua anima maggioritaria. Contrariamente a una diffusa convinzione, infatti, la nuova sinistra sorta negli anni settanta salve ristrette eccezioni, non è mai stata antiamericana, o almeno non lo è mai stata nel modo draconiano in cui lo è stata e lo è tuttora la destra estrema e in cui lo è stata la sinistra ortodossa. Il bisogno di contrapporre rigidamente un'America "altra" a una che andava combattuta in quanto "nemico del genere umano" (per usare le parole di Che Guevara) non era in fondo che una soluzione semplificatrice e mitica di un'ambivalenza profonda, quella che Portelli riconosce all'inizio: "Prima pensavo che l'altra America mi piacesse perché stava fuori e contro il resto dell'America. Poi ho cominciato a sospettare che la ragione per cui mi piaceva era anche che stava dentro il resto dell'America, e l'aveva dentro di sé... Woody Guthrie lo dice esplicitamente: 'Questa terra è la mia terra'. Malcolm X esplicitamente lo nega: 'lo non sono americano, io sono una delle ventidue milioni di vittime nere dell'America' e implicitamente lo conferma 'L'Islam era una bellissima religione, e avrebbe potuto diffondersi di più se gli fosse stata fatta una pubblicità migliore' dice dopo il pellegrinaggio in Arabia: un americano alla Mecca".
In realtà, se la convinzione che "quella terra" sia anche, un po', la nostra terra ha attraversato tutta la cultura di nuova sinistra, ciò è dovuto soprattutto alla cultura di massa, cinematografica (John Wayne, ricorda Portelli, ma forse soprattutto Humphrey Bogart) e musicale, che ha fatto dell'America una parte di un'identità generazionale. In fondo il merito di Portelli è forse soprattutto quello di aver continuato a scavare, da allora, guidato sempre dal rock'n'roll ma facendosi aiutare dai più vari riferimenti culturali soprattutto letterari. Ha fatto dell'adesione, apparentemente facile e istintiva, a un paese che è altro dal suo ma che insieme (il rock'n'roll fa anche questo) non può non sentire un po' come suo, uno stimolo alla curiosità e all osservazione.

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