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Poeta intenso e disperato, Metz ebbe un’esistenza tormentata da difficoltà economiche, lavorative e da problematici rapporti ambientali, acuiti dalla sua particolare fragilità emotiva. La sua dipendenza dall’alcol, gli improvvisi accessi di aggressività, il dolore per la morte di un figlio piccolo lo condussero a reiterati ricoveri in ospedali psichiatrici e a pesanti trattamenti farmaceutici, che lo portarono a suicidarsi poco più che quarantenne. I versi antologizzati in questo volume risalgono all’inverno 1986-1987, e riflettono sprazzi di luminosa e innocente grazia, per quanto presaghi a volte di una minaccia futura. Vibrano di una reiterata invocazione, rivolta a sé stesso o a un imprecisato “Uomo”, presenza amicale o angelica, promessa di soccorso solidale e salvezza: “Guarda”, ripetono, ed è un invito a schiudersi verso un fuori benefico, positivo, aperto. Il fuori verdeggiante di alberi e prati, il cielo attraversato dal volo di uccelli (ghiandaie, pettirossi, merli): osservandolo il poeta dimentica noia e delusioni (“che importa questo / io”), nell’attesa di una qualsiasi epifania, sia essa parola, incontro, amore. O magari una “tavola inventata” intorno a cui sedersi, cercando una comunicazione fraterna, non intellettuale, non libresca: “Scrivi / non nella scrittura / ma nell’intimità del pozzo / dove il più chiaro si nasconde”, “Poche parole per raggiungerti / ma ascolta: / se non hai niente da dire allo storno / alla ghiandaia / perché discutere con la sentinella / che ha fatto il nido / nel libro”, “Vecchia orsa minore / vieni a vedere: / sorge un giardino / nel respiro dell’albero / è questo il luogo / dove uomo e uccello / si meravigliano”. Una pagina interrotta, quella di Thierry Metz, che con le sue grandi mani da campione di sollevamento pesi, ruvide mani di muratore, sapeva scrivere con delicatezza di foglie, di ali, di speranze negate.
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