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Vorrei iniziare a parlare di questi due volumi sottolineando l'interesse e il piacere di lettura che ho provato in entrambi i casi. Autrici e autori sono riusciti a prendere per mano il lettore, ad accompagnarlo in un percorso che riesce a essere insieme introduttivo per chi ancora poco conosce la materia e, contemporaneamente, problematico, garbatamente critico e complessivo per chi si sente già partecipe del dibattito. La chiarezza dell'esposizione, inoltre, appare particolarmente lodevole in un campo come quello degli studi postcoloniali in cui s'incrociano e interagiscono testi con riferimenti teorici molteplici e con linguaggi specifici, a volte di non facile comprensione. Gli studi postcoloniali, attingendo alla storiografia, all'economia e alla filosofia, alla letteratura, alla psicoanalisi e così via, hanno sviluppato via via un proprio lessico che tende a compiere un salto mortale nell'appropriazione di concetti sviluppati nei saperi dominanti dell'ex colonizzatore, modificandoli tuttavia attraverso un proprio uso, consono al riconoscimento dell'esperienza di radicale espropriazione umana nei processi coloniali e postcoloniali. In tal senso la riflessione postcoloniale, in tutte le sue espressioni, è un campo che ci aiuta a "disimparare" le derive coloniali, neocoloniali e razziste di cui sono intrisi la nostra cultura e i nostri linguaggi. Il libro a cura di Shaul Bassi e Andrea Sirotti è un manuale di introduzione agli studi postcoloniali e come tale offre al lettore un ampio ventaglio di contributi che approfondiscono il linguaggio (Anna Maria Cimitile), la costruzione di nazionalismi e nazioni (Annalisa Oboe), la diaspora postcoloniale (Alessandra di Maio), l'elaborazione di "razza" ed etnicità (Shaul Bassi) e la questione di genere (Liliana Ellena). Altri contributi analizzano le architetture postcoloniali (Carmen Concilio), la riscrittura dei grandi classici e il dialogo con il canone (Maria Renata Dolce), insidie e ricchezze della traduzione (Viktoria Tchernichova), l'esperienza postcoloniale latinoamericana (Flavio Fiorani) e, infine, le storie postcoloniali di voci migranti italiane (Federica Zullo). Quest'ultimo contributo ci rammenta anche una deplorevole specificità italiana: lo scarso interesse, la scarsa curiosità per le esperienze di ex colonizzati e migranti dalle ex colonie italiane. Anche in questa chiave l'uso didattico del testo è altamente consigliabile. I curatori sottolineano l'importanza dello stile delle letterature postcoloniali, uno stile di ragionamento. Nel rintracciare i molteplici fili teorici che confluiscono a tessere la tela postcoloniale, ai volumi di Edward Said (Orientalismo e Cultura e imperialismo), giustamente, viene attribuita particolare importanza. A proposito del ruolo delle analisi di Said appaiono molto interessanti le elaborazioni postcoloniali, critiche del suo modello, sviluppatesi in America latina e presentate nel volume da Fiorani. Nel volume, inoltre, si rintracciano i contributi dei grandi scrittori e teorici della decolonizzazione e dell'approccio postcoloniale, da Frantz Fanon a Léopold Sédar Senghor e C.L.R. James, da Chinua Achebe a Salman Rushdie, da Wole Soyinka a Nadine Gordimer, Derek Walcott, Seamus Heaney, V.S. Naipaul, J.M. Coetzee e Doris Lessing. In particolare e qui troviamo molti nessi con l'altro testo di questa recensione ci si occupa dello sviluppo dei cultural studies in Gran Bretagna negli anni ottanta, legati ai nomi di Stuart Hall e Paul Gilroy. L'altro filone è quello elaborato dagli studiosi anglo-indiani, come Homi K. Bhabha e Gayatri Chakravorty Spivak, e il loro retroterra teorico poststrutturalista legato a nomi come Jacques Derrida, Jacques Lacan, Louis Althusser e Hélène Cixous. Infine, viene data l'importanza che merita per comprendere lo sviluppo dell'approccio postcoloniale all'apporto del femminismo e delle teorie di genere. Se da un lato gli studi delle donne degli anni settanta, sovvertendo dall'interno gerarchie e paradigmi del sapere maschile, solo apparentemente neutri, hanno stimolato nel loro procedere lo sviluppo degli studi postcoloniali, dall'altro le prese di posizione delle donne femministe nere o comunque postcoloniali hanno fortemente scosso il sapere femminista "bianco". Francesca Giommi in Narrare la black Britain offre al lettore un ampio spaccato del farsi recente di una letteratura di tipo nuovo: "nera", perché le autrici e gli autori sono migranti giamaicani o africani o i loro discendenti, e "British" perché nati e domiciliati in Gran Bretagna. Anzi, spesso non hanno mai conosciuto o conoscono solo da adulti le cosiddette "terre d'origine". L'autrice cerca di dare una panoramica generale di questo tipo di letteratura, ma poi sceglie alcuni testi di autrici e autori della seconda e terza generazione ambientati nel tempo presente e prevalentemente in Inghilterra attraverso cui, in modo esemplare, approfondire le varie tappe creative di questo nuovo filone letterario. Seguendo i capitoli il lettore è invitato a percorrere il processo complesso segnato da tappe anche fortemente conflittuali e dolorose per i protagonisti di questo movimento letterario che si snoda attraverso alterne fasi di attrazione/repulsione, ricerca di identità e rifiuto delle gabbie identitarie. Attraverso questo processo il soggetto colonizzato l'altro per antonomasia diventa inglese, e dal di dentro rivoluziona la stessa idea di inglesità. Questo tipo di letteratura si muove su un continuum che va da una rivendicazione di specificità black che enfatizza le proprie esperienze di ibridazione verso altre posizioni che, invece, rifiutano etichette specifiche considerando la loro una letteratura inglese e basta. Per il lettore è affascinante seguire attraverso le trame esistenziali dei protagonisti dei romanzi e attraverso la descrizione dei luoghi le mutazioni significative dei percorsi migratori e, soprattutto, delle soggettività dei giovani black British che si formano in lotta e attraverso moti di amore/odio verso le sollecitazioni e le provocazioni della società inglese. Le opere raccontate e analizzate nel volume agiscono in un certo senso da specchio critico, da lente di ingrandimento, della società inglese, dei suoi razzismi intrinseci, ma anche dei suoi cambiamenti verso un nuovo tipo di società. Partendo dalla narrativa urbana degli anni novanta che hanno segnato l'emergere di una nuova etnicità inglese di colore (Courttia Newland, Benjamin Zephaniah, Diran Adebayo, fino a Zadie Smith), Francesca Giommi si sofferma sulla declinazione femminile dell'esperienza black British (Simi Bedford, Diane Evans e, soprattutto, Andrea Levy) e la rivendicazione della totale britannicità di Mike Phillips. Il percorso di lettura si chiude mettendo in rilievo "una tendenza alla diaspora e al cosmopolitismo sempre più diffusa nella scrittura nera contemporanea", da Jackie Kay a Chris Abani e Fred D'Aguiar, da Bernardine Evaristo a David Dabydeen a Caryl Phillips. Renate Siebert
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