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Anno edizione: 2013
Anno edizione: 1994
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scheda di Papuzzi, A., L'Indice 1994, n. 9
Alpinista di grande talento ed eleganza, autore di vie di notevole valore e di importanti ripetizioni, intellettuale eclettico, ricco di curiosità, leader del movimento che portò il Sessantotto anche in montagna, Gian Piero Motti, nato a Torino nel 1946, morto suicida nel 1983, scrisse la sua "Storia dell'alpinismo" su commissione di De Agostini che la pubblicò nel 1977, in appendice alle dispense dell'"Enciclopedia della montagna". La nuova edizione, curata da Camanni direttore di "Alp", mette a disposizione di tutti gli appassionati un'eccellente opera divenuta introvabile. Massimo Mila così ne scrisse a suo tempo: "anche all'estero esiste qualcosa che si possa paragonare a questa Storia per ampiezza d'informazione e per appassionata vivacità di partecipazione confortata dall'esperienza personale?". Come la famosa "Storia dell'alpinismo" di Claire-Eliane Engel, tradotta da Einaudi nel 1965, scritta con gradevole finezza, ma inaffidabile nelle valutazioni delle imprese, anche la ricostruzione di Motti mette a fuoco soprattutto l'evoluzione alpinistica nella Vecchia Europa, dalla conquista del Monte Bianco al fenomeno Reinbold Messner, ma in più possiede una conoscenza diretta dei teatri di scalata e una competenza tecnica fuori discussione. Con tutto ciò, questa non è un'opera riservata agli specialisti grazie all'impostazione assolutamente originale datale dall'autore.
Un elemento fondamentale dell'alpinismo europeo è la storica contrapposizione tra occidentalisti e dolomitisti. La base tecnica di tale contrapposizione è la diversa natura dell'ambiente che lo scalatore deve affrontare: il granito e i ghiacci delle Alpi occidentali richiedono tenacia e spirito di conquista, l'aereo calcare dei gruppi dolomitici esige invece potenza e acrobatico coraggio. Nato sulle Occidentali come esplorazione, è nelle Dolomiti che l'alpinismo diventa una sfida. Ma secondo Motti la contrapposizione è culturale prima che tecnica: l'origine andrebbe individuata nella differenza tra il Romanticismo inglese, positivo e scientifico, esplorativo e sportivo, e il Romanticismo tedesco, suggestionato dal titanismo, ammaliato dalla morte. Ne scaturisce una tesi storiografica in cui non è difficile riconoscere un'impronta sessantottina: l'intera storia dell'alpinismo andrebbe letta come un confronto e uno scontro fra cultura occidentale, con l'idea della lotta e il mito della conquista, e cultura orientale, con il mistero, la solitudine, l'illusione, la morte. L'alpinismo non sarebbe, nelle sue stesse realizzazioni concrete, che lo schizofrenico conflitto tra un "ignoto esteriore" che lo scalatore si illude di esplorare e possedere e un "ignoto interiore" che è la sua vera ascetica meta, peraltro irraggiungibile. Per cui gli stessi alpinisti si dividono in uomini dell'azione e uomini della nevrosi.
Motti ammira gli uomini dell'azione, come furono Whymper o Mummery, Cassin o Bonatti, ma la sua simpatia va tutta agli uomini della nevrosi; da Preuss a Comici, da Gervasutti a Bull. Egli elabora anche i presupposti di una psicoanalisi dell'alpinismo, quando esamina le polemiche dei puristi, il campione dei quali fu il pallido "cavaliere solitario" Paul Preuss, contro l'uso dei chiodi per la progressione, con annesse staffe e manovre di corda. La parete sarebbe la Grande Madre, che i puristi si rifiutano di violare (o violentare); il chiodo sarebbe il simbolo fallico di una violenza incestuosa. Riassorbito dentro il mistero dell'animo, l'alpinismo si rivela, in quest'opera, eccentrica e affascinante, prima che un viaggio fra creste e vette una discesa dentro la coscienza dell'individuo. L'aggiornamento di Camanni, centoventi pagine, racconta le vicende dal 1978 a oggi in un capitolo significativamente intitolato "Gli anni che cambiarono l'alpinismo".
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