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Storia del PSI nel centenario della nascita-Il padre - Ottiero Ottieri - copertina
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Storia del PSI nel centenario della nascita-Il padre
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Storia del PSI nel centenario della nascita-Il padre - Ottiero Ottieri - copertina

Dettagli

1993
27 agosto 1993
104 p.
9788877466693

Voce della critica


recensione di Petrucci, G., L'Indice 1994, n. 4

Difficile dare oggi alla cronaca lo spessore della storia e alla storia l'attualità della cronaca, entrambe alloggiate in aree separate e incomunicabili. Lo fa, in "Storia del PSI nel centenario della nascita", Ottieri che ripercorre la strada non solo di quel partito, ma i nodi cruciali che impegnarono e divisero, negli anni cinquanta, gli intellettuali della grande famiglia marxista quando, più che di consenso e opinione massmediologica, si discuteva dell'egemonia dentro la classe operaia.
"I socialisti avevano il complesso / dei cugini. / Come accade nelle famiglie / dove prima si parla del mondo, / poi più strettamente di casa, / infine di un parente / o di un gruppo di parenti / che sono l'unico vero interesse / del gruppo. / Cousinage mauvais voisinage. / Nelle sezioni si finiva sempre / per discuter passionalmente / dei comunisti": questo l'esordio. Da un lato i comunisti dagli "occhi di ghiaccio / con cui bruciavano il nemico vivo", dall'altro i socialisti "più liberi ma più blandi più aperti dei cugini, / ma un po' vecchiotti", entrambi accomunati però dal fatto che "scopavano poco e questo / è molto importante" - sottolinea il narratore - "come si vedrà in futuro. / Il principio del piacere / andava completamente annegato / nel principio di rivoluzione. / Ma la tristezza della classe operaia / sembrava gridare / più di uno sciopero generale".
Con efficaci battute, dunque, Ottieri ci restituisce il clima politico e culturale di tutta un'epoca, tra sbarramenti ideologici e censura del sesso, ma per riconnettersi a un presente che è sotto gli occhi di tutti: "Ora scrivo per far capire / lo sboccio della carica erotica / in un partito rivoluzionario / quando si pensava che la rivoluzione / fosse casta per forza. /O giustizia sociale, o amore. / Con tale nuova prassi / allettiamo i giovani / e ancora più gli anziani. / Tutti gli italiani ci voteranno. / Mai si son viste le due passioni / accoppiate! " Il racconto di quegli anni, che si sdipana in rapida successione, è riferito da una voce che ora si allarga nel ricordo di episodi della propria esperienza di militante socialista (bella, in proposito, la figura dell'operaio comune Comolli, "socialista di sinistra/borderline, uomo di frontiera, / non garofano, martello"), ora rapprende il dire in lapidarie e graffianti definizioni o folgoranti clausole rinforzate dalla rima ("Ma il futuro è sempre oscuro. / Atto di fede è la sua unica luce", a proposito dei comunisti, stigmatizzati come "i dannati alla previsione sicura"). È il narrare "stretto" cui lo scrittore ci ha abituato e che ancora di più traspare da quando ha oprato per un verso-prosa o prosa-verso costruito sulla continua smentita di ogni attesa, in uggia a quella "forma" alla quale dice di non aver mai dato peso, ma per cui fu, come ricorda qui a proposito del suo "Tempi stretti", ostracizzato dall'intellighenzia comunista: "Quel testo venne / prosastico. Non v'era / poesia n‚ tendenza nuova. / Pasolini lo vilipese. La sinistra letteraria / lo trovò brutto. La / sinistra letteraria / voleva non testi industriali, / ma a livello industriale. / Era grave raccontare / la vita nelle fabbriche attuali / con una prosa da Zola. / Per massimo / di avanguardia nel contenuto / tenevo massima retroguardia di forma". piuttosto, la politica come altrove la fabbrica o la clinica, hanno in Ottieri un dire tenuto volutamente basso, sorta di consapevole e volontaria autocostrizione. Così questo strano andare per versi, che non ammicca ad alcuna certezza formale, ma al dubbio su questa, va di pari passo col suo pensiero non-ideologico e non per questo a-ideologico.
È chiaro, infatti, che la frontiera non era quella dello stile, bensì della rigida politica del Pci e dei suoi intellettuali ("Gli scrittori insomma / non erano di sinistra vaga / erano comunisti / e si misuravano col Soviet preciso"), al cui gelo nemmeno Pratolini si sottrasse, nonostante Metello - "l'edificante modello di realismo socialista italiano" - , come sembra alludere l'amara e fraterna domanda: "Ma tu, Pratolini, / da che cosa / sei stato inghiottito?" Domanda che se getta un'ombra lunga su quel clamore cui seguì, com'è noto, il peso del silenzio successivo, trascende tuttavia la polemica del tempo, per spingersi fino ai nostri immediati dintorni, con in più un paradosso: la comunicazione difficile, se non impossibile con i "cugini" d'allora, è qui instaurata proprio con gli stessi, per altro tutti scomparsi (da Calvino a Silone a Pavese, da Pasolini a Einaudi a Vittorini a Pirelli), proprio perché quell'interrogativo apre sul vuoto politico e ideale di oggi. Che cosa è rimasto infatti, di quella passione, di quel rigore e perché no, di quel grigiore, casi efficacemente rievocato, che animava nella diffidenza i due interni schieramenti? Questo è il punto generatore dell'intero testo.
La voce autobiografica ("sono esclusivamente autobiografico", dichiara a più riprese l'autore), altrove frantumata nella forma del diario o del taccuino, si fa dunque qui coscienza non solo esistenziale, ma appunto storico-critica, aspirando per quanto è possibile a un'unitarietà anche compositiva: il "poemetto", appunto. È per questo che dissentiamo da quei lettori che lo hanno liquidato o come un facile salto su una carrozza alla moda, o come velleitario racconto politico-oggettivo, senza coglierne lo spessore civile. Ma, è la sua qualità, questa voce non sentenzia dall'alto di una qualche verità acquisita, anzi, anche là dove fa uso dell'acido ironico, non esibisce, piuttosto è un arrocco in estrema difesa. Non potrebbe essere altrimenti per chi non ha mai dismesso l'arma tagliente del dubbio critico, fino ad allargarne i confini nel fagocitante e distruttivo sentimento della colpa. Di colpa, cioè di mancanza e inadeguatezza, anche in questa "Storia del Psi" si parla, mentre si ripercorre la "marcia di avvicinamento alla condizione operaia" di quell'"operaista fanatico / [che] era un piccolo agrario", la cui complessa vicenda col padre, agrario e fascista, è raccontata nel componimento di seguito al nostro, "Il Padre". L'affiancamento nello stesso volume è 'pour cause'. Intanto quest'ultimo viene spesso in soccorso nella decriptazione di alcuni personaggi che nel primo sono richiamati in maniera allusiva (com'è di Fabrizio Onofri, "il Grande Comunista"), o nell'incremento memoriale di altri (gli amati Perrotti e Musatti), e poi entrambi scorrono all'insegna di uno stesso conflitto incrociato e forse solo ora sanato: la colpa appunto, vuoi verso il padre che "non capiva questa mania / di stare con gli operai", vuoi verso i compagni o, se si preferisce, l'altro padre, il partito: "La colpa in me / s'affacciava già forte / non potevo raccontarla nel partito / della giustizia. / Io, soltanto, lottavo per la libertà. / Per liberare bisogna essere liberi".
Proprio per questo la voce del "figlio" può farsi oltremodo tagliente e addirittura sulfurea (si veda la sbeffeggiante rinominazione di Craxi Asdrubale, Martelli-Nicolas Notabene, De Michelis-Anti-Climacus, Ripa di Meana-Frater Taciturnus, i "quattro dell'Apocalisse"), verso chi ha liquidato, per la sua parte almeno, la metà del patrimonio di "famiglia", in nome di un neo-pragmatismo manageriale e truffaldino. Così se affari, salotti, sesso e discoteche hanno affrancato dall'antico complesso dei cugini il vecchio partito di Nenni, allora è difficile capire perché questo "insista / a chiamarsi socialista / quando non ha più nulla / di sociale, di socialista, sta sotto / al capitalismo arraffone" Sono i fatti e i misfatti dell'ex gruppo dirigente del Psi, verso cui si dirigono. in una vera e propria esplosione caustica, gli strali dell'ultima parte d poemetto, Asdrubale in testa: "Durante il suo governo / l'Italia entrò tra le nazioni / industriali del mondo. / Egli si è presentato ora / come uomo della Ripresa, dei reimprenditorii fatti. / Fatti e misfatti. È impresa". Davvero esilarante e nondimeno sarcastico è il consesso degli "otto" in torno al letto del resuscitato narratore: "C'erano, al mio risveglio, da una par te / Reitzel, Victor Eremita /Johannes Climacus, / Johannes De Silentio. / Dall'altra parte, la mia: Asdrubale, Anti-Climacus, / Nicolas Notabemne, Frater Taciturnus. Apocalisse emozionante / con 4 giusti, 4 Cavalieri, otto. / L'opinione pubblica privilegiava / or l'uno or l'altro, / i primi, eroi dell'imprenditorato puro, / i secondi, di un socialismo sì puro / che nemmeno vedeva"; dove l'atmosfera profetico-apocalittica, incrementata dall'internzionale 'obscurisme' dei nomignoli, sfocia nel rovesciamento della "rivelazione" del finale: "Il mito del neo-socialismo, / come successo / del potere nel sesso, / nella moneta, nella potenza, pura, / è caduto Ora, nella civiltà dietrologica, / Asdrubale sol cerca / di Di Pietro il didietro".

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Ottiero Ottieri

1924, Roma

Ottiero Ottieri, scrittore e sociologo italiano, si laurea in lettere per poi seguire un corso di perfezionamento in letteratura inglese. Ottieri inizia a collaborare a quotidiani e riviste tra le quali la «Fiera letteraria» e, nel 1947, si aggiudica il Premio Mercurio per un racconto, L’isola, pubblicato sulla rivista omonima. Insoddisfatto dall'ambiente letterario romano, secondo lui chiuso ed elitario, nel 1948 decide di partire per Milano.Arrivato a Milano incomincia a lavorare come assistente del capo dell’ufficio stampa della Arnoldo Mondadori Editore.Nel 1950 sposa Silvana Mauri, nipote di Valentino Bompiani, e l'anno dopo inizia a dirigere la rivista mensile di divulgazione scientifica «La Scienza Illustrata». Il manoscritto del suo primo libro,...

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