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A 8 anni di distanza dalla prima lettura ho riletto, cosa che io non faccio mai, questo meraviglioso canto del cigno dell'estremo crepuscolo dell'Impero Asburgico, colto qui nelle sue convulsioni finali, su un fronte balcanico già svanito nel passato. I reggimenti che hanno per secoli innalzato l'onore dell'aquila bicipite sui campi di battaglia di tutta l'Europa vengono bruciati in un solenne olocausto alla partenza dell'Imperatore Carlo per l'esilio. È una storia di guerra e di amore anche, per quanto precario e crepuscolare, sullo sfondo delle rovine di un Impero che fu una Patria per i popoli dell'Europa centrale. Un amore che nasce nell'ottobre del 1918, durante gli ultimissimi giorni dell'occupazione austro-ungarica di Belgrado e che poi si consoliderà nella Vienna stremata dalla guerra perduta, dalla Spagnola e dalle tensioni rivoluzionarie. L'alfiere Menis, fedele al giuramento prestato all'Imperatore, è chiaramente un alter ego dello scrittore, che fu sempre fino alla morte un nostalgico dell'Impero. La dissoluzione dell'Impero avvenne, come è evidente dalle pagine del romanzo, più che per le tensioni interne tra i vari popoli, sobillate dagli alleati (d'altronde l'autore sottolinea come comunque i contadini ruteni che alla fine si rifiutano di obbedire agli ordini avevano combattuto per 4 anni fedelmente per l'Imperatore) per estenuazione, uno sfinimento dovuto al blocco economico totale ferocemente imposto dai presunti democratici alleati. Quando le truppe inglesi arrivano a Belgrado, l'esercito austro-ungarico occupa ancora il suolo imperiale ma si sta liquefacendo come neve al sole sotto la spinte del nazionalismo più insensato. Meraviglioso romanzo che ho apprezzato molto di più in questa mia tardiva rilettura di quanto avessi potuto fare a 22 anni, quando non ne rimasi particolarmente colpito. A.E.I.O.U. per sempre, almeno in letteratura il motto si è avverato, rendendo per sempre immortali le insegne Imperiali.
Non posso non concordare con le recensioni precedenti. Vorrei aggiungere che l'esperienza di servizio dell'Autore nella Cavalleria Austriaca durante il primo conflitto mondiale aggiunge notevole credibilità all'opera: lui ci era stato, e lo si capisce da come scrive di cavalleria, fino all'ultimo dettaglio.
Fra tutti i romanzi dello scrittore viennese, “Lo stendardo” è quello in cui si ritrovano le maggiori affinità con “La marcia di Radetzky” di Joseph Roth, per le ambientazioni marziali e per le atmosfere che preannunciano la dissoluzione dell’Impero austro ungarico. Lernet-Holenia, con la narrazione in prima persona di un sottufficiale baldanzoso ai limiti dell’arroganza, esibisce una prosa incisiva e a volte tagliente tramite la quale delinea con crudo realismo lo sfaldamento dell’esercito asburgico; e nell’alfiere Menis descrive il graduale stemperarsi della spavalderia a cui subentra l’amarezza e la disillusione per la disfatta, elementi che comunque non gli fanno rinnegare l’orgoglio di soldato. Alla fine del libro il lettore potrà tornare alle prime pagine che avrà modo di comprendere a fondo. Grande romanzo denso, intenso e dolente, un’opera decisamente al di sopra degli altri lavori di Lernet-Holenia.
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