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Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto - copertina
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Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto
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Descrizione


I saggi contenuti in questo volume propongono una serie di nuovi approcci allo studio comparato dei regimi nazista e stalinista. Moshe Lewin e Ian Kershaw, esperti di storia russa e tedesca, hanno riunito un gruppo internazionale di storici e sociologi al fine di analizzare gli aspetti ricorrenti del totalitarismo. Con questi saggi di ampio respiro, sebbene non esplicitamente comparativi, si vogliono offrire le basi per una analisi piú vasta, mettendo a disposizione gli strumenti per un approfondimento e un allargamento delle ricerche in questo settore.
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Dettagli

2002
1 marzo 2002
476 p.
9788835951810

Voce della critica

Da tempo gli studi storici hanno avviato un ripensamento meno strumentale e meno ideologico della categoria di "totalitarismo": non più finalizzata a un'identificazione immediata tra nazismo e comunismo - come nell'epoca della guerra fredda - bensì impiegata per una comparazione effettiva, capace di misurare analogie e differenze. Ad aprire in qualche modo tale strada - che ha poi conosciuto importanti tappe successive (come il volume curato da Henry Rousso e pubblicato l'anno scorso da Bollati Boringhieri; cfr. "L'Indice", 2002, n. 3) - fu un convegno tenuto a Philadelphia nel 1991, di cui con molto ritardo si pubblicano adesso gli atti in traduzione. Pioniere coraggioso e meritorio, quindi, il libro curato da Kershaw e Lewin - entrambi storici attenti alle implicazioni sociali della politica - anche se non privo di errori (l'uso del termine pseudoreligioso di "olocausto", ad esempio), e di qualche timidezza: in particolare nella scelta di un termine come "stalinismo" che sembra eludere la questione di un confronto tra regimi (e quindi tra nazismo e comunismo). In effetti, quest'ultima scelta risponde a un'opzione metodologica precisa, che privilegia l'analisi politologica sincronica dei modi di funzionamento dei due regimi, colti ciascuno all'apice del proprio sviluppo, anziché la loro evoluzione genetica (e quindi, nella fattispecie, il nodo del rapporto di continuità-rottura tra Lenin e Stalin, che rimane sostanzialmente assente dalla trattazione).

Si tratta di un'opzione di metodo nient'affatto scontata, che comporta il superamento di vecchi paradigmi interpretativi. Il primo è quello, per così dire, "storico-strutturale" di una predestinazione nazionale all'involuzione autoritaria. Nell'introduzione congiunta i curatori prendono esplicitamente le distanze da ogni qualsiasi modello storiografico di rivoluzione borghese e democratica, rispetto al quale definire per sottrazione e ritardo le esperienze di Germania e Unione Sovietica. Piuttosto che al Sonderweg (la "via speciale" di transizione alla modernità percorsa dalla storia tedesca) e alla tradizionale arretratezza della Russia zarista, le origini di nazismo e stalinismo vengono ricondotte a un "retroterra comune" precedente al 1914. Comune proprio alle due situazioni nazionali: contrassegnate da monarchie autoritarie con limitate concessioni al parlamentarismo, da burocrazie statali forti, da apparati militari potenti, da ambizioni imperiali.

Ma l'esistenza di questo background condiviso serve a Kershaw e Lewin soltanto come giustificazione preventiva dell'esercizio comparativo e non già come modello evolutivo di spiegazione causale, delimitandone ogni possibile forzatura deterministica. D'altra parte, l'attenzione portata al funzionamento fisiologico dei due sistemi politici (anziché alla loro genesi) conduce anche a mettere tra parentesi il nodo della rivoluzione e quindi ad aggirare le interpretazioni che, da Talmon a Furet, tendono a porre in relazione Terrore e rottura giacobina, muovendosi su un piano di storia delle ideologie, che invece resta in buona misura estraneo all'andamento di questa discussione. Così come viene esplicitamente rigettata ogni lettura alla Nolte dei lager nazisti come reazione indotta dalla sfida-minaccia dei gulag sovietici. Più complesso è il rapporto con un altro tradizionale paradigma interpretativo: quello intenzionalista (o, per dirla in termini sovietici, del culto della personalità), che delimita il regime alla figura e al ruolo del leader. È abbastanza impossibile pensare che senza Hitler e Stalin l'evoluzione della Germania e dell'Unione Sovietica sarebbe stata la stessa, e se una cosa il XX secolo insegna agli storici - in controtendenza alle "rivoluzioni" strutturaliste e quantitative vissute dalla disciplina - è il ruolo decisivo delle personalità individuali.

Ma il punto di vista del libro (che Kershaw ha poi distesamente sviluppato nella sua biografia hitleriana) è quello del rapporto organico tra il capo e il sistema di potere da lui diretto: burocrazia, partito di massa, forze armate. In questo punto di vista è a sua volta compreso il superamento di un altro paradigma: l'immagine arendtiana, letterariamente fortissima ma euristicamente paralizzante, dell'universo concentrazionario come specchio di società civili costrette sotto la cappa monolitica di regimi compiutamente totalitari. Lager e gulag rimangono invece sullo sfondo di un'analisi concentrata sui processi e i meccanismi interni di dittature policratiche, che vivono di conflitto e mediazione tra diversi centri di potere. Referente implicito di tale impostazione è una categoria "modulare" di totalitarismo che, nella scia di Carl Friedrich e Zbigniew Brzezinski, articola la comparazione attorno all'esistenza o meno di tratti comuni: leader carismatico, partito di massa, ideologia assoluta, polizia politica, controllo pubblico della sfera economica.

È a questo livello che la comparazione mostra i suoi risultati migliori. I contributi al volume di Ronald Suny e Moshe Lewin mettono in luce il rapporto "gregoriano" che Stalin instaura con la periferia del partito contro i suoi potenziali rivali al centro. In polemica con l'identificazione trockjiana tra stalinismo e burocrazia, il dispotismo di Stalin ha bisogno della burocrazia, ma a un certo punto scorge in essa un pericoloso e inaffidabile antagonista, da tenere sotto continuo scacco attraverso il terrore poliziesco e le epurazioni. Inesistente fino al 1928, il culto di Stalin rappresenta un'arma politica ulteriore in questa battaglia combattuta senza esclusione di colpi, che tuttavia conduce a un doppio esito contraddittorio ed esiziale: la solitudine psicotica del tiranno si giustappone al gigantismo titanico e sanguinario dei suoi progetti di ingegneria sociale. D'altra parte, Hans Mommsen ripropone la sua tesi di un Hitler "dittatore debole", origine e nello stesso tempo vittima di un processo di "radicalizzazione cumulativa" del regime, destinato a un processo di autodistruzione progressiva determinato dalla costante e caotica competizione tra le diverse parti della macchina statale (economica, razziale, militare). Ma, a differenza dello stalinismo, il nazismo si configura come un regime "parassitario", incapace di sopravvivere alla scomparsa del leader. Mutuando spunti già presenti in Talcott Parsons, Michael Mann sottolinea aspetti comuni ai due regimi: il metodo divide et impera dei due dittatori, la referenzialità diretta nei confronti del tiranno e il cameratismo politico-militare come fonti di legittimità dell'esercizio subordinato del potere (in sostituzione delle funzionalità e delle competenze: criteri propri delle società moderne, complesse e pluralistiche), infine il clima quotidiano di mobilitazione straordinaria. Sono tutti fattori che, uniti insieme, producono regimi contrassegnati da una "rivoluzione permanente": un clima di costante fluidità istituzionale, di discrezionalità e di violenza, antitetico di ogni regolarità burocratica e strutturalmente contrario a ogni consolidamento istituzionale.

I saggi di Bernd Bonwetsch e Omer Bartov esemplificano questi caratteri complessivi nella rispettiva gestione delle forze armate. È invece soprattutto Kershaw a insistere sulle differenze: contrariamente a Hitler che sintetizza in sé il nazismo, Stalin esce da una lotta spietata al vertice di uno stato sovietico che tuttavia sarà in grado di sopravvivere alla sua morte. Mentre il potere di Hitler appare "intoccabile" e determina un metodo di lavoro da Nibelungentreue ("fedeltà fino alla morte"), Stalin si sente vulnerabile e agisce sulla insicurezza dei sottoposti. Di conseguenza lo stile di governo del primo è "non burocratico" e fa leva sull'iperzelo competitivo dei funzionari, mentre quello del secondo utilizza a fondo la macchina statale. Con l'eccezione isolata della notte dei lunghi coltelli, il terrore hitleriano si indirizza all'esterno verso i nemici della grande Germania, mentre quello staliniano si volge all'interno con lo scopo di destabilizzare i potenziali antagonisti al vertice.

I passi avanti compiuti dalla ricerca dopo il 1991 e in particolare dai sovietologi "revisionisti" (J. Arch Getty, Gábor T. Rittersporn, Roberta T. Manning) hanno in larga misura confermato questo quadro. Come dimostrano gli studi di Terry Martin e Oleg Chlevnjuk, il meccanismo delle quote (obiettivi numerici di perseguitati da deportare e giustiziare) funziona nel corso degli anni trenta come test di efficienza della burocrazia sovietica e riaffermazione della sua fedeltà personalistica a Stalin. Negli anni di guerra tale meccanismo repressivo viene progressivamente esteso anche a minoranze nazionali legate a stati stranieri (tedeschi, finlandesi e romeni, cui dopo il 1943 si aggiungono ceceni, ingusci, tatari, calmucchi, bulgari, greci e armeni): centinaia di migliaia di famiglie vengono deportate e recluse (i bambini internati in orfanotrofi), il capofamiglia condannato alla pena capitale. Il nemico della rivoluzione viene quindi individuato secondo meri criteri di appartenenza etnica (con un'estensione automatica delle sue colpe ai familiari), al punto da rendere superata l'affermazione secondo la quale lo stalinismo "non giunse all'individuazione di un singolo gruppo etnico da condannare al totale annichilimento". In realtà lo fece, anche se non in omaggio a una ideologia razzista bensì per effetto di una psicosi di guerra funzionale alla propria sopravvivenza.

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