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La specie prepotente - Luigi Luca Cavalli-Sforza - copertina
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Dettagli

2010
20 agosto 2010
192 p., Brossura
9788886270861

Voce della critica

È la storia planetaria raccontata dalle molecole. Prima le esplorazioni di piccole bande di cacciatori e raccoglitori nelle sconfinate distese del Vecchio mondo, poi le espansioni prorompenti di agricoltori e pastori a partire da quattro o forse cinque centri di irradiazione della domesticazione di piante e animali, e dopo ancora le massicce ondate migratorie delle civiltà urbane: una marcia inarrestabile di colonizzazione umana di spazi e di ambienti, lungo una trama di percorsi che hanno portato esseri umani in ogni anfratto degli ecosistemi terrestri. Alla base vi fu con ogni probabilità un'inedita capacità di adattamento, biologico e culturale al contempo, che ha condotto una specie ominide africana, rimasta sola soltanto nelle ultime decine di migliaia di anni, "a una predominanza sulle altre specie, sulla natura, e infine dell'uomo sull'uomo". Proprio alla particolare evoluzione della "specie prepotente", cioè Homo sapiens, è dedicato l'ultimo libro del grande genetista, emerito alla Stanford University, Luigi Luca Cavalli Sforza.
Preceduta da capitoli che descrivono con chiarezza le sorgenti di variazione e le basi della genetica mendeliana ("l'ereditarietà spiegata inutilmente ai disattenti e ai presuntuosi"), il funzionamento del Dna, la genetica delle popolazioni, gli obiettivi e i risultati del progetto internazionale Human Genome Diversity Panel, le analogie e le differenze fra evoluzione biologica e trasmissione culturale, le ragioni dell'infondatezza scientifica del concetto di "razza umana", si snoda nel volume il racconto avvincente della globalizzazione umana a partire da ripetute uscite "out of Africa", ripercorsa attraverso i tracciati lasciati dai geni, dai ritrovamenti archeologici, dalle parentele culturali e dalle possibili corrispondenze fra l'albero genetico e quello delle famiglie linguistiche.
Il lettore vi troverà preziose indicazioni di metodo sull'importanza della statistica e del calcolo delle probabilità, su come far convergere prove multidisciplinari, ma anche le scoperte più recenti dello scienziato italiano, come quella della diminuzione regolare della diversità genetica fra gli individui di una popolazione all'aumentare della distanza dall'Africa, segno che non soltanto tutti gli esseri umani derivano da un ristretto gruppo di pionieri vissuto in quel continente, ma che la diffusione planetaria potrebbe essere avvenuta attraverso una sequenza di "derive genetiche" (un effetto del fondatore in serie), cioè di spostamenti progressivi di piccoli gruppi familiari periferici di sapiens in cerca di nuovi terreni di caccia.
Questo vasto scenario, che abbraccia la lunga storia della diversità umana e ripercorre i cammini del popolamento umano, sarà anche l'oggetto di un nuovo ambizioso progetto espositivo internazionale di impianto evoluzionistico, che vedrà la luce nell'autunno del 2011 a Roma e cercherà di ripetere il successo italiano della mostra Darwin 1809-2009, organizzata in occasione del bicentenario della nascita del grande naturalista inglese. È infatti di inestimabile valore educativo conoscere le specie ominidi che fino a poco tempo fa hanno condiviso con noi il pianeta, sapere che la diversificazione del genere Homo coincide proprio con l'inizio degli spostamenti fuori dall'Africa, che la nostra specie ha avuto un'origine unica e recente, che da un piccolo gruppo fondatore africano discendono i quasi sette miliardi di esseri umani attuali, che da un così puntiforme inizio ha preso avvio un tumultuoso processo di diffusione, forse attraverso ondate successive di popolamento, e che le civiltà prodotte da questa specie promiscua ed espansiva hanno le loro radici tutte intrecciate fra loro in virtù di antiche migrazioni e ibridazioni.
L'evoluzione biologica umana, sorretta dai quattro "pilastri" che Cavalli Sforza ci ha insegnato a riconoscere e a integrare fra loro (la mutazione, la selezione, la deriva e la migrazione), è davvero prodiga di sorprese: da poco sappiamo, per esempio, che il patrimonio genetico dei non africani presenterebbe qualche piccola somiglianza in più con quello dei Neanderthal, ed è interessante leggere che l'ipotesi preferita dal genetista di Stanford per spiegare questo dato inaspettato è quella di una breve ibridazione regionale (con incroci in Medio Oriente) fra le due specie, mentre altri presuppongono che la causa sia da ricondurre piuttosto a una sotto-struttura della popolazione già presente nell'antenato comune fra sapiens e Neanderthal. Comunque sia andata, alcuni millenni prima dell'invenzione dell'agropastorizia, con la scomparsa dei neandertaliani e di Homo floresiensis in Indonesia siamo rimasti soli, ultimi rappresentanti di un cespuglio di forme un tempo rigoglioso e ora monopolizzato da un'invadente popolazione di abili manipolatori dell'ambiente.
Le parti culminanti del libro sono dedicate infatti alle conseguenze evoluzionistiche non del tutto controllabili della rivoluzione agricola e dello sviluppo culturale, in particolare "l'egoismo legato alla proprietà e alle gerarchie sociali". Cavalli Sforza non nasconde la sua predilezione e il suo affetto per le società egalitarie, come quelle dei pigmei africani da lui studiati, fondate su comportamenti più altruistici e sostenibili, nonché sul controllo rigoroso delle nascite. Questi popoli soffrono i tentativi di compromesso con la civilizzazione e le loro chance di sopravvivenza sono ridotte al lumicino. A costo di sembrare nostalgico, l'autore avanza l'ipotesi che il mondo perduto di questi cacciatori e raccoglitori abbia offerto un tempo l'ispirazione per quella "età dell'oro" cantata da poeti e filosofi fin dall'antichità.
L'ottimismo per le conquiste della scienza sembra così in parte offuscato, quando lo sguardo viene gettato sul futuro dell'umanità nell'ultimo capitolo, da un grave punto debole delle società odierne: l'incapacità delle classi dirigenti di affrontare realmente le diseguaglianze economiche globali e le conseguenze nefaste del sovrappopolamento, a causa dell'inadeguatezza dei politici, "profondamente egoisti e interessati soltanto al loro potere e alla loro ricchezza personale". Il pensiero va a "nazioncine squilibrate", guidate da capi megalomani pronti a maneggiare armi di distruzione di massa. Come via di fuga un po' fantascientifica e un po' provocatoria, Cavalli Sforza riprende in chiusura la vecchia idea del fisico di Princeton Gerard K. O'Neill di costruire piattaforme orbitanti, o basi spaziali su altri corpi celesti del sistema solare, che siano in grado di riprodurre le felici condizioni iniziali di una vita in piccoli gruppi, sostenuta da risorse rinnovabili e senza gerarchie sociali. Ci troveremmo così nella paradossale situazione di dover ripristinare condizioni "naturali" in contesti del tutto artificiali.
Ma nel libro di un innovatore e di uno sperimentatore che ha influenzato per più di mezzo secolo la ricerca biologica di frontiera – lottando contro molti vecchi pregiudizi nelle sue battaglie culturali e nelle sue opere di divulgazione – possono anche essere più che sufficienti alcuni scorci autobiografici. Come quella volta che un giovane studente di PhD americano, un tale Jim Watson, dopo aver letto un suo articolo andò a trovarlo a Milano per proporgli un'ipotesi di lavoro in genetica dei batteri. Cavalli Sforza non volle sottoscriverla perché la teoria del tetranucleotide era sbagliata, ma entrambi, uno per la struttura del Dna (con l'aiuto di Francis Crick e di Rosalind Franklin) e l'altro per la genetica umana, avrebbero aperto nuove vie della scienza.
Telmo Pievani

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