Sotto il nome del cardinale

  La storia della chiesa, ma diciamo dell'umanità, è affollata di persone e fatti tenuti nascosti, poi restituiti dal corso imprevedibile della storia stessa grazie al lavoro e all'ostinazione dei suoi esecutori. Leggendo Sotto il nome del cardinale di Edgardo Franzosini ho ripensato a due casi forse poco pertinenti ma in qualche modo legati a quello di Giuseppe Ripamonti, prete, protagonista del libro, altrimenti (poco) noto al grande pubblico soltanto per l'influenza esercitata sulla stesura dei Promessi sposi con le sue opere storiografiche, e su tutte l'Historiae Patriae e il De Peste (1640). I casi sono quelli di Daniello Bartoli e di Ferdinando Tartaglia. Bartoli (1608-1685), gesuita, aveva la vocazione del viaggio, ma i suoi superiori, viste le doti ("il Marino della prosa, fabbro artificiosissimo e insuperabile di periodi e di frasi, di uno stile insieme prezioso e fiorito", secondo De Sanctis), lo costrinsero a scrivere un'interminabile Storia della Compagnia di Gesù. Tartaglia (1916-1987), sacerdote, scomunicato nel 1946, fu il teologo della "novità pura e totale" e del "puro irriferito", ma anche poeta e prima di tutto scrittore. La corrispondenza sta nel comune talento e nella vita tormentata cui il talento li costrinse. Di Ripamonti – lo dichiara Ignazio Cantù, lo riporta Franzosini – venne lodato il magistero nella lingua latina e "la facilità con cui nelle opere sue maneggiò sempre quell'aureo linguaggio", con la "constatazione che proprio 'da quel punto' fosse cominciata 'la lunga serie dei suoi guai'". Esteriormente i guai si risolsero in quattro anni di reclusione per volontà di Federico Borromeo, dapprima in un canile e poi nelle cantine scavate tra le fondamenta del palazzo dell'arcivescovo, che pure in principio lo aveva accolto e nominato Dottore della Biblioteca Ambrosiana. I motivi della detenzione, degli interrogatori, del processo? Pretestuosi al massimo. Si parlò di "un atto di disobbedienza nei confronti di Federico", di "titoli gravi di religione", quindi gli si rimproverò "di aver inopportunamente raccontato episodi deplorevoli della vita di alcune figure tra le più eminenti della Chiesa" nel primo volume del suo Historiarum Ecclesiae Mediolanensis; fu persino accusato di sodomia. Il vero motivo fu invece il timore bestiale del Borromeo di veder distrutta la propria vanità di scrittore. Facendo leva su due lettere rare di Ripamonti, conservate da un collezionista e attestate da due storici, Franzosini insegue e infine rivela il mestiere ingrato del suo protagonista, costretto all'orrenda causa di coloro che "aspirano a guadagnarsi fama immortale con lavori faticati da mani che non sono le loro, ed ai quali appongono il proprio nome". In questo ancora più infame, Borromeo lo costrinse a fargli da ghostwriter persino in cella. Chiuso il giro della trama, cosa rimane? La qualità della scrittura di Franzosini, ad esempio, che è capace da sola di trasformare un racconto storico in un'autentica opera di fiction, ma senza minare la purezza del lavoro storiografico. Il tempo nasconde i fatti passati sotto quelli presenti, più degli strati geologici. Lo storico sovverte il tempo e la sua natura estorcendogli però lo strumento più importante: la memoria, la memoria dei fatti e dei percorsi attraverso cui quei fatti si sono o sono stati nascosti. E così la storia ristabilisce la verità; l'arte di narrare mette solo un ordine tra i fatti, che però non è l'ordine naturale, ma quello dell'intreccio, del mistero, della seduzione.     Andrea Cirolla