Chiudi

Aggiungi l'articolo in

Chiudi
Aggiunto

L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri

Chiudi

Crea nuova lista

Sortilegio e delirio. Psicopatologia delle migrazioni in prospettiva transculturale - Michele Risso,Wolfgang Böker - copertina
Sortilegio e delirio. Psicopatologia delle migrazioni in prospettiva transculturale - Michele Risso,Wolfgang Böker - copertina
Dati e Statistiche
Wishlist Salvato in 22 liste dei desideri
Sortilegio e delirio. Psicopatologia delle migrazioni in prospettiva transculturale
Attualmente non disponibile
18,99 €
-5% 19,99 €
18,99 € 19,99 € -5%
Attualmente non disp.
Chiudi
Altri venditori
Prezzo e spese di spedizione
ibs
18,99 € Spedizione gratuita
disponibile in 7 settimane Non disponibile
Info
Nuovo
Altri venditori
Prezzo e spese di spedizione
ibs
18,99 € Spedizione gratuita
disponibile in 7 settimane Non disponibile
Info
Nuovo
Altri venditori
Prezzo e spese di spedizione
Chiudi

Tutti i formati ed edizioni

Chiudi
Sortilegio e delirio. Psicopatologia delle migrazioni in prospettiva transculturale - Michele Risso,Wolfgang Böker - copertina

Dettagli

2
2000
1 gennaio 2000
212 p., ill.
9788820721619

Voce della critica


recensione di Gallini, C., L'Indice 1992, n. 9

Sintomatici destini sono spesso quelli dei libri. Esce oggi in traduzione dai tedesco (ottima, di De Micco) un libro scritto quasi trent'anni fa e che evidentemente solo oggi si pensa possa trovare un pubblico interessato. Cercheremo più avanti di capirne le ragioni. Ma quello che appare come un nostro ritardo può essere letto come segnale di quanto sia stato anticipatorio un libro come questo.
Il libro, che si intitolava "Verhexungswahn*, è stato scritto da un italiano e da uno svizzero, entrambi psichiatri presso la Clinica dell'Università di Berna. L'italiano è Michele Risso, forse uno degli psichiatri che hanno più inciso nella nostra storia culturale, prima della sua prematura scomparsa nel 1982. "Verhexungswahn*, parola composta di due termini, è un neologismo coniato dagli autori per indicare in termini astratti una sorta di malattia, che non si rappresentava come malattia, ma come altra cosa: un Wahn, un "delirio" dalle manifestazioni sconosciute agli psichiatri svizzeri, ma che i pazienti riconoscevano come causato da un'operazione di Verhexen, una "stregoneria", un "sortilegio".
Giungeva alla clinica di Berna una persona, per lo più di sesso maschile, relativamente giovane, immigrato dall'Italia. Era visibilmente in preda al panico, paralizzato da un ossessionante sentirsi agito da voleri estranei e perversi, che gli trasformavano i vissuti del corpo e inibivano il sesso. Non c'era dubbio, n‚ per il paziente, n‚ per i suoi familiari: questo soffrire era conseguenza di un'operazione magica, un malocchio casualmente raccolto per strada o una deliberata fattura d'amore, magari nella forma più terribile di una fattura a morte. La storia che si raccontava era sempre una vicenda d'amore, in cui il desiderante non aveva mai trovato corrispondenza e in cui le fila del male erano sempre tessute da una donna. Il delirio da affatturamento metteva dunque in scena il dramma di un impossibile incontro dei sessi, in una versione al maschile che tradiva gli squallidi retroscena di un sogno di potere, significativamente capovolto.
Questo dramma, che trovava la sua ultima rappresentazione nelle corsie di una clinica d'oltralpe, nasceva in uno scenario preciso: l'immigrazione italiana, e più precisamente quella del nostro Mezzogiorno. E se le sue manifestazioni potevano essere percepite come deliranti da uno psichiatra mitteleuropeo, non erano intese a questo modo n‚ dal "paziente", n‚ dai suoi familiari, che in tutta evidenza ne condividevano orientamenti e valori e che attivamente collaboravano nel mettere in relazione il parente con il mago esorcista. Del dramma fa parte infine anche lo psichiatra, Michele Risso appunto, il quale, pur appartenendo ad altro livello culturale, con l'immigrato condivide la lingua e ne intuisce lo spaesamento.
Inizia così un'esperienza, che possiamo ben dire fosse quasi inedita per quegli anni. Risso capì che quelle persone che per un ospedale psichiatrico potevano essere definite e trattate come "malati" o "deliranti" non erano tali per la loro cultura di appartenenza, che li considerava vittime innocenti di un'aggressione esterna. Persin superfluo cercare di definire secondo criteri clinici la diversità degli stati patogeni (nevrosi, schizofrenia, ecc.) eventualmente sottostanti alla sindrome da affatturamento o sortilegio. Questa non poteva infatti venir ricompresa nella nosografia costruita dalla moderna psichiatria occidentale, ma doveva essere considerata nella sua specificità culturale. Le stesse pratiche simboliche di eliminazione del male messe in atto dal mago-guaritore dovevano essere provate sull'ipotesi di una loro possibile efficacia. La psichiatria transculturale in quegli anni era appena nascente, e "Verhexungswahn* avrebbe portato un importante contributo.
Il libro ci presenta dodici casi clinici, che pio via via vengono scomposti nei loro diversi elementi significativi, per individuarne le costanti delle rappresentazioni e dei processi. Lo psichiatra si trova di fronte a quello che gli appare come un lessico culturale alieno, che richiede di essere decifrato. Nasce da qui l'ampia utilizzazione delle opere "meridionalistiche" di Ernesto de Martino, in particolare "Sud e Magia" e "La terra del rimorso". Ma con Ernesto de Martino lo psichiatra condivide molto di più, a partire da quelle premesse metodologiche che individuano nel simbolismo magico la messa in forma e il controllo di una "crisi della presenza" culturalmente condizionata. Per Risso però, a differenza di de Martino, l'eventuale "orizzonte di sicurezza", fornito dalle pratiche simboliche indirizzate all'eliminazione del male non si costruisce come fondamento stabile, ma soltanto come strumento di rimozione di nodi problematici, che rimangono irrisolti.
Il rapporto tra Ernesto de Martino e Michele Risso fu in quegli anni molto stretto e costante, e in un certo senso sarebbe continuato anche dopo la morte (nel 1965) del nostro grande etnologo. "Verhexungswahn* ci invita a riflettere su un singolare processo di circolazione culturale tra antropologia e psichiatria che si attivò, tra fine anni cinquanta e inizio anni sessanta, avendo come perno de Martino. Se questo processo ci è relativamente noto in una delle due direzioni (l'attenzione rivolta da de Martino alla psichiatria), resta ancora da studiare per la seconda, cioè quella degli interessi suscitati da de Martino su psichiatri come Risso, Jervis, Callieri, Frighi, ecc.
Ma "Verhexungswahn* non è una piatta ripetizione di "Sud e Magia". La novità è che i suoi personaggi rappresentano sì il loro male secondo moduli tradizionali, ma in un contesto radicalmente diverso da quello del Mezzogiorno a sud di Eboli: è lo scenario dell'emigrazione. E il dramma di affatturamento ha come protagonista un giovane lavoratore trapiantato al nord e come comprimaria una donna desiderata, temuta, irraggiungibile. È la fidanzata lasciata al paese, dalla verginità che si paventa incontrollabile, o, al contrario, la donna svizzera la cui emancipazione viene intesa come disponibilità puttanesca. Le crisi di ruolo e di codice vissute da questi giovani immigrati italiani in Svizzera ci appaiono oggi molto simili a quelle verificate, quindici anni dopo, da un altro psichiatra, Ben Jelloun, nell'estrema solitudine del magrebino a Parigi ("La plus haute des solitudes", Paris 1977, trad. it. "L'estrema solitudine", Milvia, Torino 1988).
E già "Verhexungswahn* viene a interrogarsi sul tipo di solitudine e di sofferenza che incontra l'immigrato in terra straniera e sull'inadeguatezza dei suoi strumenti culturali qualora pretenda (certo, per debolezza, o ingenuità o mancanza di reali alternative) di interpretare col proprio codice le regole di comportamento altrui: ad esempio, quelle che al nord consentono alle donne una maggiore emancipazione.
"Verbexungswahn* che usci nel '64, in pieno boom dell'emigrazione italiana all'estero, fu un libro, nel suo genere, pionieristico, ampiamente utilizzato e citato da chi si occupasse, e non solo da psichiatra, di fenomeni migratori in Europa. Ma uscì in tedesco, come in tedesco sono anche scritte e non tradotte le principali ricerche socio-antropologiche sui nostri emigrati in Germania e in Svizzera: persone che evidentemente interessano laddove si usano e rispetto al cui destino non si interroga la patria che li espelle, seppur forzatamente. E se "Verbexungswahn* esce oggi in traduzione italiana lo si deve anche al fatto che da qualche anno l'Italia è diventata anche terra di immigrazione e come tale si percepisce e si rappresenta. Per questo, quasi inevitabilmente, per il lettore che si accosti oggi a "Sortilegio e delirio" gli immigrati italiani nella Svizzera di trent'anni fa si trasformano negli immigrati magrebini o pachistani che sono venuti a popolare il nostro territorio, suscitandoci "problemi" e sollecitando interrogativi.
Se oggi poi leggiamo questo libro prendendone anche qualche distanza critica è anche perché dopo "Verbexungswahn* è comparso un altro libro di Michele Risso, questa volta scritto con Delia Frigessi, "A mezza parete" Einaudi, 1982. È qui che tra l'altro si analizzano i termini mediante i quali, nella società contemporanea, psichiatria e sociologia si sono suddivise il compito di costruire un'immagine dell'immigrato che ne occulta la sofferenza per enfatizzarne gli elementi problematici e di disturbo rispetto a una società ospitante troppo spesso rappresentata come indiscussa e indiscutibile.
"Sortilegio e delirio" esce oggi più arricchito di materiali: una "Nota", di Vittorio Lanternari, che esplora i nessi tra antropologia e psichiatria. Un'altra di Virginia De Micco e Giuseppe Cardamone si provano a raccordare i lavori di Michele Risso con la storia delle ricerche in psichiatria transculturale di quest'ultimo trentennio. Infine, in appendice, due saggi importanti di Risso.
Letto oggi, il libro ci sollecita almeno in diverse direzioni. La prima è quella storica. Predominava a quei tempi il paradigma di una "acculturazione" dell'emigrato da una civiltà contadina ad una moderna, intesa come meta da raggiungere, magari anche in un percorso che dall'universo della magia portasse a quello della razionalità. Questo schema è ancor oggi assai duro a morire, e si nasconde persino all'interno di molti studi sull'immigrazione "extracomunitaria" in Europa. "Verbexungswahn* si colloca inevitabilmente entro queste coordinate, che ipotizzano tra l'altro una radicale antinomia tra mondo arcaico interamente "magico" e mondo moderno interamente "razionale", con gli equivoci che conseguono a questo vecchio schema evoluzionistico. Ma il libro continua ad essere un gran libro, anche perché intuisce molti limiti proprio di questi discorsi, prefigurando prospettive che si sarebbero chiarite (e mai ancora sufficientemente) in seguito, anche grazie allo stesso sviluppo del pensiero di Risso.
Vediamone qualche particolare. Il giovane immigrato che soffre per una fattura ci appare come una persona totalmente determinata dagli schemi della cultura contadina d'origine. Messo di fronte alla straniera, libera perché la sua cultura glielo consente, compirebbe un errore di lettura, fraintendendone il codice, onde le conseguenze che conosciamo. Vent'anni dopo, non avrebbe ragionato allo stesso modo il Todorov della "Conquista dell'America", col suo attribuire le ragioni della sconfitta di Montezuma a una serie di errori madornali di interpretazione del codice simbolico entro cui gli pervenivano i messaggi di Cortez? E non avevano ragionato in modo analogo tutti quei sociologi dell'emigrazione con la loro teoria dei rischi di uno "choc culturale"? In ogni caso, si è radicalizzata la differenza tra le culture, immaginandole come blocchi alieni e non comunicanti e rappresentando le persone come del tutto determinate dai rispettivi contesti, senza possibilità di mediazione.
D'altra parte, gli stessi autori di "Verhexungswahn*, e in anni in cui erano quasi i soli studiosi di scienze umane a pensarla a questo modo, non sono affatto sicuri che l'universo della razionalità elvetica rappresenti il migliore dei mondi possibili. L'ultimo capitolo del libro, "La 'malattia mentale' nel mondo magico e in quello razionalistico", è, sotto questi aspetti, il più lucido e anteveggente. Vi si mettono a confronto due forme di delirio, l'uno vissuto da un immigrato italiano, l'altro da un operaio svizzero. Entrambi i deliri si rappresentano come un influenzamento, ma se nel primo caso si parla di veleni, sangue, fatture, nel secondo sono misteriosi meccanismi ad agire nel cervello, in modi che molto ci ricordano gli influenzamenti già patiti dal controllore Schreber di freudiana memoria. Ma la differenza essenziale che Risso e Boker osservano tra i due orientamenti sta altrove: nella diversa socializzazione di un'esperienza, che è massima per chi condivida con familiari e compaesani le stesse parole con cui esprimerla. Il giovane svizzero, al contrario, vive e si rappresenta il suo male in una tragica solitudine, che al massimo si trasforma nel difficile rapporto a due col medico psichiatra. L'antitesi è tragica. La magia non recupera, ma (lo si è visto) solo rimuove. È al mondo di oggi che si deve guardare, per incidere sulle tante solitudini da esso ingenerate.
Inizia proprio da qui quell'indicazione di lavoro, che porterà Risso all'avanguardia negli anni caldi della lotta per la democratizzazione della psichiatria. E va ricordato e sottolineato, specie in questi oscuri tempi di cancellazione di memorie e di riscrittura della storia.
L'ultimo capitolo di "Verhexungswahn* porta ad epigrafe una breve lirica di Ungaretti, che suona:
"Quel contadino / si affida alla medaglia / di Sant'Antonio / e va leggero. / Ma ben sola e ben nuda / senza miraggio / porto la mia anima".
Michele Risso lo ricordo esattamente così. Con quella lucida cognizione di una solitudine vissuta come esistenziale ma analizzata come culturale, filtrata da pochi segni del corpo: uno sguardo assieme mesto ed ironico e quel suo tipico movimento del collo che gli faceva abbassare la testa un po' di lato, mentre le labbra emettevano, quasi a sospiro, quel suo immancabile: Mah...

recensione di Bignami, G., L'Indice 1992, n. 9

"Rivedere il fondamento dei modelli teorici tradizionali non vuoi dire soltanto saperli usare meglio, ma prendere coscienza di quanto tale fondamento sia precario; e del fatto che, tuttavia, dobbiamo pur far riferimento a un modello. Il che, ancora una volta, comporta grossi rischi". In questo commento fatto in occasione del secondo anniversario della legge 180, si riassume la tensione che ha segnato le successive tappe del lavoro di Michele Risso, sino alla morte prematura nel giugno del 1981: la tensione, cioè, tra l'irrinunciabile esigenza di conoscenze, di punti di riferimento, e la spinta difficilmente contenibile alla assolutizzazione e trasmissione verticale dei modelli, alla applicazione acritica e falsamente neutrale delle varie "ricette di cura" in psichiatria, derivate dall'uno o dall'altro modello.
Della prima tappa, a impronta più strettamente medica, di questo percorso iniziato negli anni cinquanta, il lettore di "Verhexungswahn* troverà chiara traccia nelle terapie farmacologiche e di shock applicate ai pazienti. Verificare, approfondire: in questo periodo si sviluppa la monumentale analisi sugli esiti degli interventi psicochirurgici eseguiti in precedenza nella Clinica psichiatrica di Berna, dove Risso allora lavorava. Risso non si sognerà mai di negare il ruolo dei fattori biologici nella malattia mentale. Tuttavia negli anni sessanta e settanta alzerà progressivamente il tiro contro l'impiego arbitrario dei modelli biopsichiatrici e delle relative tecniche terapeutiche; andrà chiarendo a se stesso e agli altri il ruolo mistificante che la medicina spesso svolge quando "riceve e accoglie la delega di interpretare fenomeni che con essa non hanno a che fare se non per le apparenze dei loro stadi conclusivi" (Michele Risso, Delia Frigessi, "A mezza parete", Einaudi, 1982).
Tensioni almeno altrettanto forti segnano il passaggio di Michele Risso sull'accidentato terreno della psicoanalisi. In questa fase si approfondiscono i confronti tra il potenziale conoscitivo ed ermeneutico dello strumento psicoanalitico e il suo potenziale terapeutico. Su di un piano più ampio, Risso chiarisce come possano risultare assolutamente intercambiabili, nell'ambito di un'ideologia data, le più svariate tecniche verticalmente trasmesse e acriticamente applicate perciò conclude mettendo in guardia contro la smania del "come si dovrebbe fare", del "come si potrebbe fare meglio ", insistendo sul "cosa significa quello che stiamo facendo" (v. per esempio il lavoro in "Che cos'è la psichiatria", Einaudi, 1973.) Se il sofferente ha l'inalienabile diritto a un curante che sappia il fatto suo (v. l'intervista in "Dove va la psichiatria?", Feltrinelli, 1980), il curante deve sapere che "interpretare il disagio non vuol dire, purtroppo, avere in mano la ricetta della cura. Quello che sappiamo non può nulla non dico per sanare, ma per arginare il crescente malessere in cui viviamo" (v. l'intervento in "Psicologia e psichiatria", Bulzoni, 1981).
Resterebbe da dire della straordinaria stagione vissuta da Michele Risso, dalla metà degli anni sessanta alla morte, come coprotagonista del movimento basagliano per il rinnovo della psichiatria, prima e dopo la legge 180, impietosamente discutendo quelle insufficienze di risposta dei servizi che aggiungono alla cronicità del manicomio la nuova cronicità del territorio.
Il testamento di Michele Risso su queste controverse materie è scritto a chiare lettere in alcuni degli ultimi interventi fatti anche in sedi politiche ("Mondoperaio", febbraio 1980, p. 109; "Rinascita" 31 ottobre 1980, p. 39).

Leggi di più Leggi di meno
Chiudi
Aggiunto

L'articolo è stato aggiunto al carrello

Chiudi

Aggiungi l'articolo in

Chiudi
Aggiunto

L’articolo è stato aggiunto alla lista dei desideri

Chiudi

Crea nuova lista

Chiudi

Chiudi

Siamo spiacenti si è verificato un errore imprevisto, la preghiamo di riprovare.

Chiudi

Verrai avvisato via email sulle novità di Nome Autore