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L'autore pone all’attenzione del lettore l’annoso contenzioso tra l’occupazione israeliana e la rivolta palestinese, attraverso una trama ordita dal destino, come dalla fantasia di una fiaba, intorno a quattro personaggi: Khilmi, arabo, che la morte del figlio coinvolto nel terrorismo ha strappato all’idillio delle sue storie; Uri, soldato di guarnigione nei territori occupati, catapultato in una realtà ostica che non comprende; Shosh, sua moglie, psicologa tormentata dal suicidio di un giovane paziente indotto dal suo approccio amoroso; Katzman, comandante militare, ebreo polacco sopravvissuto all’Olocausto, che vive ormai nella disillusione e nel cinismo. È come se una ragnatela invisibile li invischiasse reciprocamente. In realtà, sono tutti ostaggi di una rete di odio e d’ingiustizia che assume i loro volti attoniti di fronte a qualcosa più grande di essi. In questo romanzo è dominante la figura dell’idiota di Dostoevskij: lo è Khilmi, fin dall’infanzia minato dalla sua disabilità, oggetto di scherno e di emarginazione; lo è suo figlio Yazdi, che il padre ha allevato con le sue storie perché restasse tale, refrattario alla violenza che regna nel mondo, ma che i terroristi hanno strumentalizzato; lo è Uri, scagliato nel “cuore di una menzogna”, tradito sia da sua moglie che dal suo amico, incapace di spiegarsi il male. Eppure è l’idiota Khilmi a farsi deus ex macchina di una regia contorta e artefice di una vendetta che alla fine assegna al tormentato comandante il ruolo di capro espiatorio. La realtà nel romanzo ha i contorni fumosi ed evanescenti di una favola, ” kan-ya-ma-kan”(“c’era e non c’era una volta”), attingendo all’arte fabulatoria tipicamente araba. David Grossman si rivela un autore geniale nel farsi interprete dei pensieri e dei sentimenti dei personaggi, nel sottoporre un tema così controverso ed attuale allo sguardo chiaroveggente dell’idiota, nel tessere una trama avvincente capace di stregare il lettore fino alla fine.
Grossman ci ha regalato un romanzo estremamente poetico (qualche fastidiosa imprecisione di traduzione) e complesso: uno sguardo introspettivo e prospettico sull'occupazione israeliana dei Territori. La Striscia di Gaza e i problemi politici attuali sono uno sfondo lontano, di cui si percepisce in realtà l'aria appiccicaticcia e soffocante. Lo scrittore costruisce pian piano, con l'arte del ragno, una tela in cui il lettore resta catturato, al centro della rete, rapito e inerme di fronte all'epilogo, svuotato di ogni emozione. Katzman ha compiuto, attraverso una sofferta metamorfosi in Astolfo, il suo viaggio sulla luna, e vagando tra il senno del mondo si è caricato di un cinismo autodistruttivo. Sosha è il personaggio meno riuscito a mio avviso, una sorta di aurea del bene del sionismo che si scopre egoista, viziata e vuota. Si è lasciata amare e ha condotto al suicidio. Vivere nella menzogna trasforma l'agnello nel lupo. Uri, l'agnello, dal sorriso fiducioso e ingenuo del fanciullo compie il riscatto della coscienza israeliana: il lupo sbrana con malizia la propria storia. Khilmi, custode di un tempo perduto, forse mai esistito, rifugge nella follia, un presente inaccettabile e incomprensbile, che però non è meno assurdo del passato... Non ci si affeziona a nessun personaggio, anche se tutta la poesia è riversata nell'arabo Khilmi e nel russo Zussia, ma lo sguardo attonito è rivolto all'altro, incompreso.
Recensioni
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