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In “Sole Francese”, la poiesis di Maria Luigia D’Elia, la sua “voce”, si fa “sacra brace”, discende nel logos e lo fonde, forgiandolo secondo l’esigenza espressiva dell’autrice, e nella gioia tutta solare, mediterranea e femminile del dire, la lingua si trasfigura, si spoglia da ogni convenzione, rinnovandosi nel ritorno alla scaturigine prima del linguaggio, vale a dire il parlato, o meglio, l’oralità di grado zero del dialetto. Il significante, così rinnovato, diviene dunque uno strumento corrusco, veicolo dell’aspirazione autoriale alla libertà totale del dire, della quale esso stesso e impregnato, scardinando ogni standard linguistico-letterario nella tensione verso il recupero delle radici artistiche dell’autrice. D’Elia rivendica infatti la propria discendenza poetica da Dante (“io figlia e’ Dante!”) e da Eduardo De Filippo (“sta voce è imparentata ad Edoardo”), e la sua creatività si muove tra questi due poli, cioè tra le coordinate estreme di una “Commedia” che è sì Divina, se non altro nelle aspirazioni e nella tensione ideale, ma che è anche Commedia dell’Arte, paradigma dell’improvvisazione e dunque della libertà e della vitalità spontanea dell’espressione artistica. Così la pagina diviene palcoscenico, “a scrittura de na Giullare che vol dicere e cantare!”, e la poetessa si fa istrione, giullare, appunto, pur senza rinunciare in qualche modo ad essere vate. Infatti, se la “commedia” che inscena è rutilante, caleidoscopica, essa è anche rivendicazione della libertà femminile, del diritto della donna ad una vita e ad un’espressione autentiche, perché “a Parola è Femminile prima d’esser pensata”, ed è per questo che proprio tramite la parola poetica (“fatta de inchiostro e de fermento!”) la poetessa si ribella alle pastoie imposte da un patriarcato insensibile alle istanze della femminilità, una “monarchia de sguardi torvi e d’Omertà!”.
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