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La sofferenza come identità
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2009
17 novembre 2008
216 p., Brossura
9788895366296

Voce della critica

Il nesso tra vita e identità può essere dato dal dolore? Ciò che unisce l'esistenza con il senso che intendiamo attribuirle è veicolato dal codice della sofferenza? Se lo domanda Esther Benbassa, soffermandosi sulla storia ebraica e su ciò che ha tenuto unite, nel corso del tempo, comunità diasporizzate, altrimenti destinate a subire soverchianti processi di assimilazione nonché di prevedibile estinzione socioculturale. Del libro diciamo subito che, se convincono alcuni riscontri, l'impianto generale può tuttavia sollevare qualche perplessità, soprattutto dove l'autrice si adopera in una reductio ad unum che sembra volere rileggere il passato perlopiù alla luce delle polemiche che agitano il presente. Segnatamente, un presente che ha il nome di Israele. La tesi di fondo è che la storia ebraica sia stata vissuta dai medesimi protagonisti come un'interminabile epopea animata da un ethos del dolore, costantemente sospesa tra persecuzione e martirio. L'eterna narrazione della prima come del secondo ha confortato un meccanismo di rispecchiamento solidale: quello dell'autopercezione tra gli ebrei così come della rappresentazione tra i non ebrei, coincidenti entrambi nel definire un perimetro identitario giudaico basato sulla sofferenza.
Benbassa stabilisce un continuum, soprattutto per quel che concerne le vicende degli ebrei askenaziti che dal passato confluiscono nel presente dello Stato d'Israele.
Da ciò alla teodicea il passo è breve e si compie nella religione politica che informa di sé l'identità israeliana quand'essa si declina nel meccanismo che celebra nel medesimo tempo la caduta e la redenzione come due facce della stessa medaglia, laddove la caduta è la Shoah, culmine di una traiettoria antisemitica che avrebbe inevitabilmente portato al massacro di massa, e la redenzione è data dalla presenza, in questo non meno inesorabile, dello stato degli ebrei. Una sorta di provvidenza laica, in buona sostanza, sarebbe alla radice di questa costruzione ideologica che si fa filosofia della storia. L'autrice applica il dispositivo identitario, implicato dall'assunzione del ruolo storico di vittima, al modo in cui gli ebrei non solo si sono fatti soggetto di storia, ma hanno reso essa stessa oggetto delle loro riflessioni. Ciò dicendo si appoggia alla lezione di Yosef Yerushalmi, quand'egli evidenzia l'inesistenza di un'idea di storia nell'ebraismo che non sia quella che si riconnette al transito intergenerazionale. Benbassa coglie un aspetto importante quando evidenzia, a più riprese, che il tipo di costruzione ideologica che si basa sulla vittima è permutata dal rapporto con il cristianesimo. Il volto sofferente e scavato di Elie Wiesel parla una lingua "cristologia", assai in sintonia con il sentire di un pubblico i cui codici di interpretazione riposano sulla lezione evangelica piuttosto che su quella pentateutica e talmudica. La vittimologia, che si lega alla martiriofilia, istituisce in coloro che se ne fanno portatori una sorta di aura protettiva, ponendoli al riparo dalle dure lezioni consegnategli della storia medesima. Si ingenera così il paradosso di una storia senza tempo, dove la cristallizzazione dei ruoli diventa l'unica partitura recitabile. Ma è per davvero questa la natura della moderna Israele?
Claudio Vercelli

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