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La società dell'AIDS. La verità su politici, giornalisti, medici, volontari e multinazionali durante l'emergenza - Vittorio Agnoletto - copertina
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Descrizione


Questo libro, scritto da un medico da sempre animato da interessi sociali e spirito critico, affronta a tutto tondo le grandi tematiche relative all'Aids, collocando le vicende italiane in una prospettiva e in uno scenario mondiale. Quella che emerge è l'altra faccia della globalizzazione, dove il 95% delle persone sieropositive vive in Paesi nei quali i farmaci sono troppo cari, o dove esistono Paesi in cui l'attesa di vita è diminuita di quasi vent'anni. Ma accanto alle storie da "dimenticare" ci sono storie da ricordare. Storie di malati, parenti, amici, volontari occupati in prima persona nella lotta contro l'Aids. Su richiesta dell'autore parte delle royalties ricavate dalla vendita del libro saranno devolute alla LILA ONLUS.
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Dettagli

2000
Libro universitario
578 p.
9788880897897

Voce della critica


recensioni di Nadotti, M. L'Indice del 2000, n. 11

Che poverina sarei se, di fronte a un libro che promette la "verità" sui politici di professione, i medici, l'ampio e variegato arcipelago del volontariato e le multinazionali durante gli anni della cosiddetta "emergenza Aids", non avvertissi che il libro di Vittorio Agnoletto non mantiene - come è ovvio - le promesse di un sottotitolo inutilmente strillato ed evidentemente frutto di una cucina redazionale poco sofisticata. Ma che proprio in questo suo fare ed essere altro stanno la sua forza e la sua utilità. La società dell'Aids non poteva né vuole essere, infatti, il solito saggio o pamphlet di generica denuncia o l'ennesimo instant book grondante frettolosità e rivelazioni scandalistiche. Dietro le sue pagine non c'è il lavoro di un giornalista o di un ricercatore, bensì lo sguardo, la memoria, l'esperienza e l'intenzionalità di un medico, Vittorio Agnoletto, che da quasi quindici anni è a capo di un'organizzazione, la Lila (Lega italiana di lotta all'Aids), in prima fila nella lotta per i diritti dei sieropositivi e dei malati di Aids, contro ogni forma di discriminazione, a favore di una politica di prevenzione e di riduzione del danno.
Ecco perché - come del resto scrive l'autore stesso nell'introduzione - quest'opera è più assimilabile a un vasto e indisciplinato diario di bordo, a un fitto verbale delle attività svolte da una specifica organizzazione o in prima persona dal suo leader, piuttosto che a un saggio studiato a tavolino. Se tale genere letterario esistesse, direi che La società dell'Aids di Vittorio Agnoletto è una generosa autobiografia collettiva, la cronaca - spesso frammentata e qua e là a più voci - di un'avventura che, nel corso degli anni, ha coinvolto alcune migliaia di persone, donne e uomini, tra cui sieropositivi, malati di Aids, politici, medici, giornalisti, volontari e tanti individui di buona volontà.
Ogni capitolo del libro - alternando racconto autoriale, materiali d'archivio, frammenti narrativi affidati alla penna di attivisti della Lila - ricostruisce per tappe la storia di un'organizzazione che, a partire dal 1987, quando ancora la società italiana e le sue istituzioni non sembravano essersi rese conto della gravità di quanto stava succedendo, si è attivata non solo sul terreno della prevenzione e della contro-informazione, ma anche e soprattutto su quello della difesa dei diritti dei più deboli e, più in generale, di una gestione democratica e non razzistica della malattia e delle sue implicazioni simboliche.
L'Aids, come ben sappiamo, non è stata solo una sindrome che per troppi anni ha colpito soprattutto i giovani, uomini e donne. L'Aids è stata (e a tratti continua a essere) uno splendido e feroce oggetto massmediologico, il copione ideale per una società sempre più abituata alla spettacolarizzazione del dolore e all'abuso di pericolosi processi di metaforizzazione. Come ci ha insegnato Susan Sontag con il suo saggio Malattia come metafora (Einaudi, 1992), l'attribuzione di senso extra-letterale alle cose consente di far migrare dal qui e ora di una situazione concreta e di per sé non significante come una malattia i radicali liberi del pregiudizio, del sospetto, della paura. Se l'Aids - come in tanti si sono ostinati a credere e a volerci fare credere per anni - viene via via definita e descritta come "la malattia dei gay, dei tossici, delle prostitute", di chi ha una vita "irregolare, sessualmente promiscua, trasgressiva", di chi "traffica col sangue e con lo sperma", va da sé che su di essa finisca per incrostarsi una catena di significati morali, etici, politici totalmente estranei alla cosa in sé. E - ed è questo l'aspetto più inquietante di tale processo di metaforizzazione - una volta che il pregiudizio si è installato, nulla è più facile che farlo migrare ad altri campi, altre situazioni, altre cose. Una volta che nella nostra testa si è stampata l'idea che il sangue dell'Altro sia una cosa sporca e pericolosa, inquinante, il passo verso il sospetto e la chiusura ermetica nei confronti di ogni presunta alterità è davvero breve. Come non osservare che l'Italia isterica e atterrita dall'emergenza Aids dei primi anni novanta ha preparato magnificamente - almeno sul piano simbolico - il clima di razzismo e di chiusura in cui oggi siamo immersi? Come non riconoscere che dietro la paura dello "straniero", il migrante/invasore che preme alle porte del nostro paese, o dell'omosessuale (esemplare la presa di posizione della Chiesa e di un vasto e ecumenico schieramento partitico nei confronti del recente World Gay Pride romangiubilare) c'è il capillare lavoro d'altura dei tardi anni ottanta e dei primi anni novanta, la continua associazione mediati-
ca di "promiscuità" e morte, "scambio" e rischio?
Il libro di Agnoletto - ampio, arruffato, qua e là ripetitivo, a tratti leggermente narcisistico e con qualche punta di trionfalismo - è uno specchio formidabile di quest'Italia sempre più codarda e affezionata ai propri privilegi. Parlare della propria militanza e del lavoro della propria organizzazione permette infatti all'autore di fotografare i mutamenti di una società sempre più restia a risolvere le tensioni e i conflitti sociali con l'arma della mediazione e dell'inclusione, con solidarietà e rispetto. Le pagine forse più istruttive del libro (certamente quelle che provocheranno il maggior malessere a chiunque lavori nei media) sono quelle che Agnoletto dedica allo scarto tra le campagne di informazione organizzate dalla Lila e il modo di narrare l'Aids adottato nel corso degli anni dagli organi di stampa e dalle televisioni del nostro paese. Là dove l'organizzazione militante cerca di trovare parole oggettive e specifiche, delicate e dirette, chiare e non giudicanti, troppo spesso i giornalisti di casa nostra non sanno resistere alla tentazione di creare il caso, di contaminare il racconto con i loro pregiudizi e le loro proiezioni. Agnoletto ripercorre attentamente alcuni casi giornalistici eclatanti, dalla "dark lady di Modena" a "Giuseppina l'untrice", e ne approfitta per ristabilire alcune verità e, allo stesso tempo, per denunciare il cinismo e la cecità di chi fa informazione senza porsi alcun interrogativo sulle proprie responsabilità e sul peso e il potere mortifero delle parole.
Con altrettanta passione civile il libro ricostruisce le stazioni del discorso medico sull'Aids: i lunghi anni di buio totale, l'approdo a tecniche terapeutiche rivelatesi presto controproducenti, la recente individuazione del cocktail triadico che permette di arrestare (ma a quali costi personali!) lo sviluppo e il degenerare della malattia, le guerre di territorio, ma anche le connivenze tra industria farmaceutica e potere politico, lo squilibrio tra i massicci investimenti nei paesi industrializzati e gli scarsi interventi nei paesi cosiddetti sottosviluppati.
Tracciando la mappa e l'evoluzione di un discorso che si è sempre mosso tra clinica e società, tra pratiche mediche ed esperienza accumulata in anni di lavoro militante a fianco dei sieropositivi e dei malati di Aids, Agnoletto dà conto di una duplice e spesso contrastante verità. Da un lato il disegnarsi di una logica politica lenta e a tratti inerziale, troppo spesso sposata agli interessi del grande business internazionale; dall'altra la rapidissima, sofferta e mai statica scoperta di sé e dei propri bisogni di sieropositivi e malati e delle loro organizzazioni. Se non ci fosse stata questa consapevolezza e questa continua capacità di riorganizzarsi dal basso, probabilmente - come ci ricorda l'autore - molte delle piccole e grandi conquiste di questi anni non ci sarebbero state. E se non ci fosse tuttora la volontà di ripensare la malattia e il proprio ruolo di attivisti in funzione della nuova situazione creatasi - almeno nei paesi ricchi - a seguito dell'introduzione dei farmaci stabilizzanti, il volontariato nato anni fa attorno alla cosiddetta emergenza Aids rischierebbe oggi di burocratizzarsi e sclerotizzarsi nella difesa di semplici rendite di posizione.
Un libro utile e per definizione non esaustivo, a cui attingere - su suggerimento dello stesso autore - come a un armadio pieno di cassetti stipati di cose diverse e non necessariamente riposte in modo ordinato o definitivo.

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