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Il silenzio di Stalin. I primi dieci tragici giorni dell'Operazione Barbarossa - Constantine Pleshakov - copertina
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Il silenzio di Stalin. I primi dieci tragici giorni dell'Operazione Barbarossa
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Il silenzio di Stalin. I primi dieci tragici giorni dell'Operazione Barbarossa - Constantine Pleshakov - copertina
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Descrizione


La reazione di Stalin all'improvvisa invasione tedesca nel giugno del 1941 è uno dei capitoli più discussi e controversi della storia contemporanea. Secondo alcuni, il dittatore fu colto di sorpresa, precipitò in una crisi depressiva e fu per dieci giorni del tutto incapace di dirigere la resistenza del paese contro il micidiale attacco congiunto della Wehrmacht e della Luftwaffe. Secondo altri, Stalin sapeva che la guerra sarebbe scoppiata e si preparava a farla lui stesso nel 1942, non appena le forze sovietiche fossero state pronte a prendere l'iniziativa. Ma i suoi piani furono sconvolti dalla mossa d'anticipo di Hitler e l'unica difesa possibile, in quelle circostanze, fu quella di contenere, con qualche misura di ripiego, l'avanzata del nemico. Oggi, grazie alle ricerche di Constantin Pleshakov negli archivi sovietici, il quadro è più chiaro. Stalin preparava la guerra per il 1942 e fu effettivamente sconcertato da un evento che non aveva previsto; per 48 ore si assentò dal Cremino e stentò poi, per qualche tempo, a regolare il passo delle sue decisioni sui tempi di un'operazione travolgente che permise ai tedeschi di penetrare per 550 chilometri nel territorio dell'Urss. Da quel momento il paese, sia pure con grande lentezza cominciò a dare segni di ripresa.
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Dettagli

2007
8 marzo 2007
368 p., Rilegato
9788879727488

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Andrea Alessandro
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Lo finirò più avanti, ma intanto ho il primo intoppo "Marx era uno degli scrittori più prolifici della sua epoca. Tuttavia era ben lontano da l'essere lo Stephen King della filosofia politica, mancando infatti della chiarezza dello scrittore americano. I suoi scritti erano così controversi da essere sottoscritti tanto da Iosif Zugasvili in Georgia quanto dagli intellettuali della rive gouche parigina. Nella dottrina marxista solo due tesi fondamentali erano innegabilmente chiare: il capitalismo era cattivo e la classe operaia buona:" p.30. Mah, non mi pare proprio un approccio da gran storico...

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Andrea
Recensioni: 1/5

La recensione di Ennio di Nolfo è anche troppo benevolente. Credo che quando ci si cimenta con la professione di storico si dovrebbe cercare di ridurre non dico le passioni (che non sarebbe né giusto né raccomandabile), ma almeno evitare l'inutile livore e sarcasmo su realtà complesse come quella sovietica. L'anticomunismo d'assalto sembra oggi decisamente fuori luogo, mancando ormai da decenni l'oggetto del contendere, e, alla fine, fa l'effetto di un vecchio disco rotto. Nel credere di mettere alla berlina un sistema odiato (cosa che ormai non si fa più neppure con il Nazionalsocialismo) il rischio è di ottenere l'effetto opposto e di apparire quello che si imputa al nemico: un relitto del passato. Purtroppo questa parte e i continui rimandi sarcastici e offensivi (non critici) insieme a puntate assolutamente di livello da "bar", non comprovabili né sorretti da una minima documentazione rendono tutto il lavoro assai evanescente e poco serio. E qui non è questione di essere anti o pro-comunisti, ma di saper fare il lavoro di storico e non il saccente polemista. Professione che ormai comincia a stancare.

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Voce della critica

Non è frequente che editori italiani pubblichino opere specialistiche di storia. Le ragioni sono facili da comprendere. Il mercato degli specialisti non è così vasto da assicurare un successo editoriale almeno eguale agli oneri della pubblicazione. Tanto più meritoria appare dunque la scelta dell'editore milanese di tradurre (magari in modo un po' frettoloso) questo volume.
Ciò che attrae è il titolo italiano, che mette subito a fuoco il contenuto del libro. Infatti, di solito si ritiene che, preso di sorpresa dall'attacco tedesco, Stalin, il 21 giugno 1941, scomparisse dalla scena politica per ripresentarsi il 3 luglio con un grandioso appello alla solidarietà nazionale. È fondata questa nozione? Che cosa fece Stalin dopo aver appreso che Hitler aveva scatenato la guerra contro l'Unione Sovietica? Sono, questi, interrogativi solo apparentemente marginali, in realtà tali da mettere in discussione tutta la figura del dittatore sovietico. Rispondere a questo punto oscuro della storiografia significa esplorare un caso personale che getta luce oltre l'episodio specifico, ma illumina il funzionamento di tutto il sistema di potere staliniano; un tema di tale portata da lasciar capire che ha un valore ben più esteso e disteso di quanto non abbia la storia di dieci giorni della vita di un dittatore. Questo spiega perché il volume di Pleshakov venga accolto con estremo interesse e, al di là di ogni giudizio sul suo contenuto e sull'efficacia della ricostruzione, rappresenti un contributo non marginale alla sprovincializzazione della storiografia italiana relativa alle questioni internazionali: una storiografia troppo spesso adagiata sui luoghi comuni dell'ideologia o del sentito dire e visto leggere.
La lunga premessa contribuisce però a spiegare anche il senso di relativa delusione che poi la lettura del libro suscita. È ben vero che esso ricostruisce minuziosamente azioni, umori, malumori e decisioni di Stalin nei giorni successivi all'attacco tedesco e che pertanto colma un vuoto nelle nostre conoscenze, ma il metodo della ricostruzione e l'inadeguatezza delle fonti finiscono per circoscrivere la portata di un'opera che avrebbe potuto essere assai più rilevante se l'autore, anziché lasciarsi prendere la mano dal sarcasmo o dal proposito di colorire "alla russa" la sua ricostruzione, avesse potuto disporre di una documentazione più completa e avesse dato a tale ricostruzione un carattere più sinteticamente comprensibile, più logicamente esplicito.
La prima delusione viene dalla natura delle fonti. Pleshakov ammette candidamente di avere lavorato su pochi documenti sovietici già noti e di non aver potuto disporre di quelli più importanti. Egli si basa sul controllo incrociato delle vecchie fonti (soprattutto russe: e questo è, per i molti che non conoscono la lingua, un bel contributo), ma conclude mestamente: "Non è possibile arrivare a un verdetto finale sulla 'verità' in assenza di Stalin, il testimone chiave che, tuttavia, non ci ha lasciato alcuna memoria, né diari, né taccuini, e ben poche lettere". Restano i ricordi degli altri protagonisti, "affidabili quanto l'amore di una prostituta" (un esempio, questo, del linguaggio icastico al quale Pleshakov si concede con troppa frequenza). Perciò ci si deve accontentare di una documentazione quanto mai soggettiva.
Un'altra delusione proviene dalla contraddizione di base che mina uno degli aspetti principali della ricostruzione. Di solito si è creduto che una delle ragioni della fragilità del comando supremo sovietico fosse radicata nella grande purga del 1937: 35.000 ufficiali dell'Armata rossa eliminati per sospetto di tradimento. Pleshakov spiega che questa decimazione fu tra le cause della sconfitta del 1941, ma che il terrore staliniano era tutt'altro che irrazionale, dato che senza di esso "nei primi giorni o nelle prime settimane dopo l'invasione tedesca ci sarebbe certamente stato un golpe militare, o una rivolta popolare contro Stalin". Ora, a parte il fatto che l'uso dell'avverbio "certamente" dovrebbe essere espunto dalle previsioni storiografiche, l'autore non riferisce alcun elemento che sostenga la sua ipotesi. È ben noto che la popolazione sovietica non godeva di una vita felice in quegli anni e che il malcontento serpeggiava negli ambienti militari, ma per dare come certo un golpe militare occorrono indicazioni più precise di un'affermazione preconcetta.
Infine, per dire dello stile troppo facilmente sarcastico di questo autore, basti notare il modo in cui tratta l'opera di Marx: "Nella dottrina marxista solo due tesi fondamentali erano innegabilmente chiare: il capitalismo era cattivo e la classe operaia era buona. Il rimanente guazzabuglio del suo pensiero restava aperto alla libera interpretazione". Non è necessario essere marxista per osservare che un giudizio del genere può compiacere qualche lettore, ma non è un giudizio serio.
Detto questo, è però necessario aggiungere che sul tema centrale della sua ricerca Pleshakov riesce a produrre una ricostruzione se non definitiva, sufficientemente persuasiva e tale da modificare le interpretazioni precedenti, riconducendole a una visione meno irrealistica dell'accaduto. Questa ricostruzione può essere sintetizzata come segue. Stalin era ben consapevole che l'accordo del 1939 con la Germania era solo una parentesi. Non si faceva troppe illusioni sul futuro, ma prendeva per certa una propria persuasione: "Hitler e i suoi generali non sono così pazzi da iniziare una guerra su due fronti. I Tedeschi ci hanno rimesso le penne durante la Prima guerra mondiale. Hitler non rischierebbe mai una cosa del genere". Pensava dunque di sorprendere Hitler con una mossa preventiva, preparando una grande offensiva sovietica contro la Germania, ma per il 1942, e rimase fedele a questa sua persuasione sino all'inizio dell'attacco tedesco.
La notizia dell'attacco sferrato durante la giornata del 21 giugno non sorprese il dittatore sovietico per il fatto che esso aveva luogo, ma perché frantumava le persuasioni sulle quali egli aveva costruito tutti i propri progetti per l'avvenire. Quanto poi alle versioni riguardanti la sua assenza dal Cremlino, le interpretazioni correnti sono solo in piccola parte fondate. Stalin "resse il timone", cioè rimase al Cremlino, benché in maniera "instabile e precaria" per tutto il periodo in questione, tranne il 29 e il 30 giugno. Tuttavia si comportò in modo tale da rendere possibile ai tedeschi un'avanzata di 550 chilometri in territorio russo. Pur presente, Stalin non era in grado di esercitare le proprie funzioni e, secondo Pleshakov, il 30 giugno "arrivò più vicino a perdere tutto il suo potere". La sua mente "iniziava a vaneggiare"; era "abbattuto e sgomento", "stanco e sopraffatto dagli eventi", "sprofondava nella depressione, a volte interrotta da un'ira irrefrenabile". Il suoi generali rimasero privi di ordini chiari e fu solo con l'arrivo di Žukov al quartier generale (dal quale Stalin lo aveva allontanato pochi giorni prima dell'attacco tedesco) e con la collaborazione di Timošenko, che gradualmente la situazione ritornò sotto controllo. Ma a un prezzo altissimo, che coincideva poi con la determinazione alla quale Stalin stesso era frattanto pervenuto attuando uno schema strategico elaborato da Žukov: "Salvare Mosca a ogni costo, anche abbandonando il resto della Russia europea".
Le ipotesi di un imminente crollo di Stalin erano però infondate (e appare alquanto sfuocato il modo in cui Pleshakov argomenta questa sua interpretazione). Bastò che il dittatore si rimettesse al lavoro e si rivolgesse direttamente al popolo perché il suo potere recuperasse il carisma di cui la sconfitta iniziale lo aveva privato. "Fratelli e sorelle", furono le parole con le quali Stalin fece sentire la sua voce e si presentò ai suoi concittadini per ammettere le sconfitte e promettere una battaglia comune. Un contatto diretto con il popolo, è questo l'argomento che Pleshakov utilizza per spiegare come tutti i dissensi, le voci di tradimento, le paure fossero messe a tacere. Ma questo argomento è troppo fragile per spiegare una svolta repentina. Dopo tutto, ammette il nostro autore, in presenza dello sfacelo dell'esercito Stalin seppe dar vita "a una nuova classe militare basata sulla meritocrazia". Questa conclusione, che giunge un po' repentina dopo tante pagine di critiche e di pur accurata, benché frammentaria, descrizione delle operazioni militari, indica un profilo interpretativo che forse, accanto alle annotazioni psicologiche, sarebbe stato utile mettere meglio in evidenza in un libro che, con tanti difetti, resta pur sempre un contributo di importante risolutiva sul caso che studia.
  Ennio Di Nolfo

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