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Le sette solitudini di Lorsa Lopez - Sony Labou Tansi - copertina
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Dettagli

1988
1 gennaio 1988
VI-169 p.
9788806599652

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Chiara
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Che libro! Ce l'avevo lì da più di 20 anni. Comprato usato. Letto oggi in un giorno. Una bellissima sorpresa! Superate le prime pagine, ci si abbandona all'energia cruda e all'ironia di questo libro. Molto realismo magico di cui non avevo voglia, ma con un tono diverso, più incalzante e vigoroso. Tutto ha un anima. I personaggi, anche i peggiori, sono simpatici. E alcuni come Elsina Bronzario, indimenticabili. Alcune trovate sono geniali. Accattivante l'idea che si muore solo se si sa quando. Da rileggere per conoscerlo meglio.

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Voce della critica


recensione di Zoppi, S., L'Indice 1989, n. 2

"Le sette solitudini di Lorsa Lopez" è il quarto romanzo del congolese Sony Labou Tansi, pubblicato nel 1985 da Seuil a Parigi e ora tradotto da Einaudi. Amministrandosi saggiamente, lo scrittore alterna la sua attività di narratore con quella di autore drammatico e regista a capo del Rocacdo Zulu Théatre, compagnia teatrale che porta in giro per il mondo opere sue e di altri autori africani. Avremmo forse visto meglio come primizia di Sony Labou Tansi la sua prima opera narrativa, quella "Vie et demie", pubblicata a Parigi nel 1979, che ci permette di avere un idea più precisa della più giovane letteratura negro-africana. Sony Labou Tansi è nato nel 1947 in Congo Belga, ora Zaire, ed è stato alfabetizzato in lingua congo fino all'età di quattordici anni, quando la famiglia gli fece "attraversare il fiume" e lo affidò a uno zio materno che viveva nel Congo francese, ora Repubblica Popolare del Congo. Là iniziò e proseguì gli studi fino a diventare professore di inglese, attività che esercitò per alcuni anni. Questi scarni dati biografici sono essenziali per alcune considerazioni secondo noi indispensabili per individuare la dimensione culturale di questo autore e di tutti gli altri della sua generazione.
La generazione degli autori africani degli anni quaranta/cinquanta è snaturata dopo le Indipendenze: sono dunque autori che non hanno fatto la resistenza o la guerra di liberazione, n‚ hanno alimentato il loro immaginario nel senso mitico-eroico della lotta al colonizzatore bianco. Si sono trovati a vivere in una realtà post-coloniale che aveva ereditato tutti i guasti della colonizzazione; ma i conti veri, quelli del quotidiano e del vissuto, si sono trovati a farli coi propri governanti, quelli più o meno democraticamente eletti dopo la conquistata libertà. Gli scrittori che avevano partecipato attivamente alla presa di coscienza nazionale entrarono in un lungo periodo di silenzio, dal quale molti non riuscirono più a riprendersi. Una delle ragioni di questo silenzio va individuata nella difficoltà di assumere nella scrittura la nuova realtà, per il grande scarto tra gli ideali della resistenza e l'affermarsi di scenari pubblici nei quali tutto si realizzava meno che la giustizia sociale o la libertà. Sarà proprio la nuova generazione di intellettuali che recupererà la scrittura quando non esiterà ad attingere materiali nella realtà socio-politica contemporanea, coinvolgendo nell'analisi anche la fragilità e gli errori di quei governanti che si prestano alla caricatura con immagini da operetta, anche se talora possono risultare più pericolosi d'antichi e moderni tiranni di tradizione nostrana.
Il primo romanzo di Sony Labou Tansi, con quella sua grottesca figura di generale presidente, va in questa direzione e perciò forse sarebbe stato più esemplare.
Questa premessa è parsa necessaria per illustrare i problemi posti dalla giovane letteratura africana. Non vuole essere atto d'accusa o in qualche modo di diminuzione nei confronti de "Le sette solitudini di Lorsa Lopez", opera matura di un narratore sicuro di sé e dei propri mezzi, che la traduzione italiana di Egi Volterrani, nella sua effervescenza, avvicina molto al registro linguistico originale. È una storia difficile da riassumere nei suoi risvolti d'amore e di morte, di quotidiano e di eroico, di storico e di mitico, di reale e di fantastico: uno scontro, in realtà visto solo da una parte degli oppositori, tra due comunità, una tradizionalista e organizzata all'antica, l'altra più moderna e burocratizzata, quest'ultima espressione del rapporto dialettico e sinergico tra dominato e dominatore, un dominatore che però vive tutto di riflesso nei comportamenti e nei pensieri dei dominati.
Nel tentativo di analisi della scrittura di Sony Labou saltano tutti i paradigmi consacrati ai quali da tempo ci ha abituati la critica e che per il critico sono pure comodi, permettendogli di organizzare un discorso secondo un certo filo "logico". Difficile qui è recuperare un intreccio, se non un embrione di romanzo poliziesco, in quanto ci sono periodiche morti violente per le quali si aspetta la soluzione da una polizia che non arriva mai. Difficile poi è individuare un eroe: Lorsa Lopez che ritroviamo nel titolo, o Estina Bronzario che occupa la maggior parte delle pagine, o tutti quanti gli altri che via via, o a turno, vengono ad assumere una funzione nell'ingranaggio narrativo che ci porta verso il colpevole, necessario ma inesistente. Infine la dimensione spazio-temporale: se sommassimo per diletto tutti gli anni citati e indicanti lo scorrere del tempo della storia, accumuleremmo alcuni secoli; quanto basta per scagliare fuori dal tempo della storia la favola che ci viene narrata. Il domani che potremmo ritrovare come indicazione temporale va letto nella prospettiva africana dove non significa assolutamente fra ventiquattro ore ma, forse, chissà, in un generico dopo, in un futuro indefinito, forse mai.
Due dimensioni europee che significano qualcosa se rapportate alla scrittura di Sony Labou Tansi possono essere quella picaresca e quella rabelaisiana. E l'accenno a Rabelais ci porta a individuare come stilema l'esagerazione, la ridondanza, un certo barocchismo diffuso a piene mani che l'autore definisce come categoria nel momento in cui esclama: "Lasciatemi dire la mia tropicalità!". Questa tropicalità va letta proprio come l'habitat geografico all'origine del fantastico dell'autore, dove le lucertole sono coccodrilli, le primule orchidee, il bosco è foresta vergine; dove la natura ignora il lungo respiro invernale, ma risulta continuamente affaccendata. Forse è illuminante per la comprensione della scrittura quanto l'autore stesso ci raccontava recentemente: "Per anni ho immaginato la Senna, dopo averne a lungo letto nei libri come del 'grande fiume', mentre il Congo era 'il Fiume'. Quando a Parigi un amico mi portò a vedere quel fiume così celebrato non volevo credergli, perché per me l'immagine di paragone era il Congo le cui rive davanti a casa mia a Brazzaville distano 25 chilometri". È una tavoletta con una sua morale, che va tenuta presente quando si affronta la lettura di questa e delle altre opere di Sony Labou Tansi.

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