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Il servo arbitrio (1525). Risposta a Erasmo
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1993
1 gennaio 1993
471 p., ill.
9788870161762

Voce della critica


recensione di Moda, A., L'Indice 1994, n. 1

"Sulla disposizione da dare ai volumi delle mie opere sono piuttosto freddo e pigro, in quanto che, spinto da un appetito saturnino, preferirei che fossero divorati. Nessun mio libro infatti riconosco giusto; se non forse "Il servo arbitrio e il Catechismo"": così scrive Lutero all'amico Wolfgang Capitone di Strasburgo il 9 luglio 1537; sono parole che esprimono assai bene il doloroso e disincantato distacco di un uomo che si sente stanco e consumato da mille prove, rispetto a quelle che considera le tappe di un cammino ormai irreversibile e molto avanzato, consegnato ormai nelle mani di Dio. Eppure, anche in questo contesto, il riformatore ha una parola di elogio per una delle sue opere, a lui carissima, quel "De servo arbitrio", redatto in maniera concitata nell'ultimo trimestre del 1525. Non esita a considerare quello scritto "giusto", cioè (come si evince dalla corrispondenza a questo riguardo particolarmente abbondante e registrata con doviziosa minuzia dalla de Michelis Pintacuda) dovuto e riuscito. "Risponderò ad Erasmo, non per lui, ma per coloro che abusano della sua autorità per glorificare lui in opposizione a Cristo": così Lutero scriveva nel dicembre 1524. E nel settembre 1525: "Sono ormai tutto preso da Erasmo e dal libero arbitrio e mi impegnerò a non lasciare che nulla sia detto da lui con ragione, siccome in verità nulla egli ha detto con ragione".
Era naturale che il mondo umanistico e quello della teologia cattolica non fossero inclini a sottoscrivere questa valutazione di Lutero e ad accordate al "De servo arbitrio" un posto di preminenza; istintivamente erano portati a con dividere il "De libero arbitrio" erasmiano, che esprimeva adeguatamente la loro temperie culturale, riassumibile emblematicamente nell'espressione "Philosophia Christi" che l'"Enchiridion militis christiani", redatto da Erasmo nel 1502 (e destinato a immensa fortuna), aveva reso familiare, tutta tesa a ritrovare nella Scrittura la 'medulla critici', un pane nutriente per l'anima; d'altronde anche la loro sensibilità era portata a condividere la metodologia erasmiana, esauriente nei confronti e nella lunga serie delle citazioni, a differenza dell'esplicita metodologia di Lutero che nel "De servo arbitrio" procede per asserzioni, rifragenti dalla disputatio, per affondare le loro radici nell'evidenza teologica, garantita non dalla ragione, bensì dall'autorità dello Spirito Santo, illustrante nei nostri cuori la verità della Scrittura. Ma dobbiamo dire che anche nel mondo protestante per un lungo periodo vi è stata reticenza nei confronti di questo scritto. Come scrive la de Michelis Pintacuda, si tratta "di una sostanziale rimozione del "De servo arbitrio" dall'orizzonte della ricerca teologica luterana, non soltanto nell'era segnata dalla cultura illuministica e dal pietismo, ma per tutto il periodo della cosiddetta teologia liberale, il cui sforzo dominante, tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, fu quello di sancire la piena integrazione tra il protestantesimo e la civiltà moderna. A. Ritschl, uno dei maggiori teologi liberali, alla fine del secolo scorso, non esitava a parlare del "De servo arbitrio" come di un infelice lavoro, tutto abborracciato.
I criteri di valutazione mutarono all'inizio del nostro secolo con l'avvio della nuova ricerca su Martin Lutero cui diede un contributo parallelo assai prezioso il sorgere e l'affermarsi della teologia dialettica, con la sua critica alle insopportabili riduzioni operate dalla teologia liberale. Verso gli anni cinquanta del nostro secolo, anche in campo cattolico si venne a una più equa valutazione storica e teologica del Riformatore, tendenza acuitasi negli anni del Vaticano II e rigogliosamente testimoniata dai lavori fioriti attorno alla celebrazione del centenario del 1983; anche in Italia (sebbene solo a partire dagli anni 1940) ci si è aperti decisamente a queste nuove prospettive, superando angustie (e persino fraintendimenti) che avevano pesato durevolmente). Proprio il "De servo arbitrio" se ne è avvantaggiato, teste l'affermazione di Heiko A. Oberman: "Questo scritto non è affatto mal riuscito" è un discorso diretto e chiaro, privo di diplomazia. Se di tutta la produzione letteraria di Lutero si fossero conservate solo queste pagine, potremmo ricavarne l'intero arco del suo pensiero". Affermazione cui fa eco M. Brecht: "Il "De servo arbitrio" è un concentrato della teologia di Lutero". Non uno scritto settoriale quindi (lo stesso Lutero riconosce a Erasmo il non piccolo merito di aver scelto come oggetto di disputa una questione globalizzante) bensì "un'opera di esegesi biblica che come tale muove da Dio ed a lui solo ritorna", di modo che delle tante 'assertiones' di cui è costellata l'opera di Lutero, questa assume un valore determinante e imprescindibile", tale da trasformare (come ben aveva visto G. Ebeling) in una trattazione su Dio lo scritto che si vuole dedicato all'arbitrio dell'uomo. È indubbiamente H. Bornkamm rende felicemente l'attuale situazione della ricerca quando scrive, con piena rivalutazione: "Erasmo e Lutero dischiudono il loro cuore. Gli scritti con cui si danno battaglia sono da annoverare fra i più grandi documenti della storia dello spirito umano". Era quindi giusto presentare al lettore italiano (per la prima volta, a 468 anni di distanza dalla pubblicazione originale), in forma integrale, questo scritto e sottolinearne la necessaria interpretazione teologica, tanto più che i brani antologici che di esso erano stati presentati fuorviavano piuttosto verso una lettura antropologica, aiutata anche dal titolo accostato senza sufficiente discernimento critico del contenuto. In questa linea la presente edizione può considerarsi esemplare. L'introduzione della de Michelis Pintacuda provvede a offrire esaurientemente, e in maniera molto piana, tutto quanto è necessario conoscere del travagliato rapporto fra Erasmo e Lutero, attingendo con pienezza all'epistolario di entrambi (e non si dimentichi che nel Cinquecento l'epistolario non era mai un fatto privato, ma uno dei mezzi più importanti di comunicazione e di diffusione dei giudizi che, attraverso il destinatario, toccavano una vastissima cerchia), premessa indispensabile per situare la diatriba e i suoi sviluppi. Però fin dalle prime battute ha a cuore di sottolineare il carattere "rigorosamente teologico" della disputa, non per ridurre ad esso il rapporto così dialettico tra umanesimo e riforma (come sovente è stato fatto con conseguenze storiografiche perniciose), bensì per cogliere, partendo da esso, "la ricchezza dell'interazione tra riforma ed umanesimo con meno equivoci di quelli in cui è possibile incorrere se il conflitto tra i due autori viene assunto a emblema di un'opposizione generale tra i due movimenti". Si tratta cioè di cogliere e di valutare una divergenza certo radicale, da cui nascono teologie irriconducibili a una comune visione espresse anche metodologicamente in maniera differentissima, fino all'inconciliabilità, senza pregiudicare un più complesso quattro storico che sta a monte, ma anche senza misconoscere la situazione che sta a valle di tale frattura e che si è espressa in mondi culturali divergenti (teologicamente, spiritualmente, politicamente). Sfilano così davanti al lettore sia il "De libero arbitrio" e sia il "De servo arbitrio", colto il primo nella sua caratteristica apertura dell'uomo verso Dio e il secondo nella sua altrettanto caratteristica apertura di Dio verso l'uomo; insomma due differenti antropologie teologiche; e per entrambi i protagonisti la chiarezza che il punto centrale di dissenso "risiedeva nella maniera d'intendere il rapporto dell'uomo con Dio e quindi la dottrina della salvezza e della libertà del volere umano". In quest'ottica per Erasmo "il discorso su Dio non può non avere un continuo riferimento agli uomini, partire da loro e costruirsi in relazione alle loro possibilità e necessità, ivi compresa la necessità di salvezza; e il Cristo, che ha recato la salvezza al mondo, ha insegnato una filosofia, un sapere cioè che si integra con quello degli uomini e che ne rigenera la vita stessa nella misura in cui è compenetrazione di teoria e pratica all'insegna dell'amore e della pace". Per Lutero invece "non all'uomo, ma a Dio appartengono libertà e servitù, pace e guerra: "Il serro arbitrio", dal principio alla fine, rende testimonianza, sulla base della sacra Scrittura, dell'infinita potenza e misericordia di Dio". La de Michelis Pintacuda può così enucleare i principali punti di contrasto: l'autorità della Scrittura, la dialettica fra Legge ed Evangelo, il rapporto fra Dio e l'uomo (fino a rendere conto anche delle metafore del linguaggio usato, che hanno una grande importanza per individuare rettamente ascendenze e temperie culturali, quali l'agostinismo tardomedievale), la grandiosa visione della storia, pacificata in Erasmo e drammatizzata in Lutero (fino alla continua e in quietante presenza di Satana, elemento primario che conduce Lutero all'elaborazione della dottrina politica dei due regni, che proprio in quest'opera raggiunge formulazioni molto nette). A essi Paolo Ricca aggiunge l'importanza della cristologia, fornendo una lettura teologica e iconografica del trattato di rara efficacia.
Anche così l'opera conserva tutta la sua difficoltà. Vi sono asprezze e parzialità, accanto a straordinarie illuminazioni. Esse spiegano la contraddittoria fortuna di quest'opera folgorante. Ma fanno comprendere anche, dall'interno, perché Lutero sia rimasto così legato a questo scritto, la cui portata deve essere ricuperata. La traduzione italiana (parte di una collana di opere scelte che costituisce uno dei migliori frutti italiani della celebrazione centenaria del 1983) aiuta non poco in questa direzione. Innanzitutto per la sua scorrevolezza, unita a una precisione assai rara in altre consimili imprese. E in secondo luogo per l'apporto iconografico, che non è aggiunta estetica, ma documentazione rilevante, com'è nella tradizione della Claudiana e in particolar modo di questa collana, dovuta a Paolo Ricca e Carlo Papini.

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Conosci l'autore

Martin Lutero

1483, Eisleben

Riformatore religioso tedesco, venne avviato agli studi di giurisprudenza. Nel 1505 entrò nel convento degli Eremiti agostiniani di Erfurt e ricevette, dopo due anni, gli ordini sacerdotali. Assegnato all’università di Wittenberg, tenne lezioni di esegesi biblica commentando i Salmi. Contemporaneamente, deluso dalla cultura religiosa di derivazione aristotelico-tomista, iniziò lo studio di S. Agostino, elaborando le basi della sua teologia. È di questi anni la presa di coscienza della radicale peccaminosità dell’uomo, servo della sua concupiscenza, in grado di ottenere la liberazione solo attraverso il totale abbandono alla misericordia divina. Nelle opere scritte in questo periodo troviamo espressa la condanna dell’eccessivo ricorso alle...

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