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In questo libro, centrato "sulla musica" di Richard Strauss (la "serpe in seno" è poi il compositore stesso, nella definizione dell'imperatore tedesco dopo lo scandaloso successo di Salome), emerge con rilievo del tutto nuovo il posto di Strauss nel Novecento; leggendo, si è presi pagina per pagina dalle descrizioni abbaglianti, dalle connessioni, dalle sintesi magistrali delle singole opere (tutte: dalle prime prove agli ultimi capolavori di una lunghissima carriera), ma alla fine si impone il desiderio di riconsiderare il rapporto fra Strauss e il secolo da poco concluso, e dal corso del quale il musicista sembrava emarginato; il problema circolava già nel saggio di Bortolotto su Capriccio incluso in Consacrazione della casa (sempre Adelphi, 1982), ma qui viene portato a compimento con tutta l'opera di fronte, e in un colloquio ravvicinato con le singole composizioni, secondo lo stile inconfondibile dell'autore.
L'idea che tanti anni fa, qui da noi, ci eravamo fatti su Strauss e il Novecento era molto debitrice a Luigi Rognoni, alla sua contrapposizione di Strauss a Mahler: il primo, campione della borghesia opulenta, l'altro, testimone doloroso di una fine; la base borghese era la stessa, ma Strauss la rappresentava trionfatrice, Mahler nel presentimento del declino; questo parallelo, come spesso la critica per antitesi, aveva avuto grande effetto, ma oggi non dice più nulla, staccato da una realtà artistica che il saggio di Bortolotto riporta in piena luce nella sua attualità. Semmai il ricordo di Rognoni ci induce a qualche indulgenza per lo spirito del tempo: quel dopoguerra, quando vigeva un ideale di espressione all'osso, un poco patita, rispetto al quale la musica di Strauss appariva troppo vestita, con troppa carne addosso. Bortolotto ci mostra in tutta evidenza la vendetta postuma della musica di Strauss sulla sordità dei "padroni dell'opinione"; ma poi intreccia la voce del maestro supremo della "critica risentita", cioè Adorno, autore di una famosa arringa-pamphlet; ora, questa presenza di Adorno, con le sue intolleranze e acidità, ma non meno con le penetranti acutezze, costituisce per tutto il saggio una costante provocazione intellettuale, occasione per un dialogo critico d'alta quota. Alle chiusure di un tempo non era poi estranea la taccia di collaborazionismo al regime odiosissimo, specie per la carica accettata, ma presto dismessa per solidarietà con il "non ariano" Stefan Zweig, di presidente della Reichmusikkammer; a Zweig dichiara di aver accettato "per fare del bene e per tenere a bada mali peggiori. Semplicemente, perchè ho coscienza dei miei doveri artistici"; e nella stessa lettera: "Crede Lei che Mozart abbia composto con la coscienza di essere 'ariano'?"; nessuna collaborazione quindi, se mai "tacita reticenza", come Furtwängler; ma "esami di integrità morale durante la dittatura taglia corto Bortolotto vengono richiesti solo a figure di livello imponente; ai comuni professori (la lista italiana è stata fatta), ai compositori di mezza tacca non si imputa nulla: per essi si è inventata la teoria dell''errore' precedente al perdono, infine il soffice oblio".
Un'altra vecchia formula che ancora lascia eco in qualche manuale è lo Strauss "postwagneriano": certo, lo era nel senso ovvio di aver assorbito elementi wagneriani, ma qui ci si convince che quegli elementi non erano i più essenziali, o quanto meno permangono nella tecnica puramente musicale; molto più importante per la drammaturgia risulta l'influenza di Hugo von Hofmannsthal, la cui corrispondenza epistolare con il musicista, riletta nelle sue confluenze e disparità, è un altro pedale costante che percorre tutto il libro. Legge suprema del loro teatro è la metamorfosi, in Hofmannsthal "manovra essenzialmente linguistica" che filtra fonti innumerevoli e disparate risplasmandole a sua misura e nel "colore di miele che gli era connaturato"; si vedano le pagine sulla nascita del Rosenkavalier, dove Hofmannsthal "cambia le carte in tavola" e la Parigi di Molière o del romanzo di Luovet de Couvray (1789) si trasforma nella Vienna di Maria Teresa; e il geniale anacronismo del valzer, introdotto da Strauss come una filigrana di tutta l'opera, diventa un equivalente della lingua stilizzata del grande poeta. Lontana da Wagner è pure la poetica e l'etica della socievolezza e del "tatto" che Hofmannsthal, "il sensibilissimo", trasmette al musicista: quel tatto il cui presupposto, secondo l'Adorno dei Minima moralia, "è la convenzione in sé compromessa ma ancora presente"; del resto, il dramma musicale è accantonato a favore della commedia, e dopo Elektra tutte le opere di Strauss approdano a un finale lieto.
Alle grandi vedute, come sempre, Bortolotto alterna le ispezioni su particolari minimi, frutto di conoscenze capillari; vogliamo sceglierne una relativa all'episodio della cascata nella Alpensinfonie (opera in sé non certo amata dallo studioso): "Nulla di più esquisito della catena di trilli ai secondi violini, o delle scale in quarte, patentemente lisztiane (vedi lo studio d'après Paganini n. 2). Vi è certo una forma di musicale dandyism: una goccia di profumo può compromettere una mise, un'altra sublimarla: si veda l'appoggiatura unica in una serie di pacifiche crome (p. 36, una battuta avanti il n. 34) a testimoniare d'una sovrana musicalità": dove l'attenzione del lettore è convogliata su una singola nota, una appoggiatura addirittura, in corpo piccolo. Anche da particolari di questo genere si conferma che la modernità di Strauss è la musica istantanea, la quantità di dati incapsulati nell'attimo, le fulminee sovrapposizioni mentali. Se il Novecento ha poco imparato da lui, lui ha percepito e penetrato istanze profonde del Novecento, fissandole in pagine esemplari e fuori dal tempo: è una delle tante scoperte di questo libro appassionante e imprescindibile.
Giorgio Pestelli
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