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Sostiene Pereira. Una testimonianza - Antonio Tabucchi - copertina
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Sostiene Pereira. Una testimonianza

Descrizione


Premio Campiello 1994. "Tabucchi è convinto che è arrivato il tempo in cui dobbiamo chiedere anche alla letteratura di dire la verità: non la verità metafisica e del cuore, ma proprio la verità degli uomini, quella della loro condizione storica, dei pericoli che stanno correndo, degli assassini di cui sono autori e vittime" (Angelo Guglielmi)
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Dettagli

19
1996
Tascabile
19 gennaio 2009
216 p.
9788807813818

Valutazioni e recensioni

4,35/5
Recensioni: 4/5
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Micy
Recensioni: 4/5

Da leggere assolutamente!

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mirko
Recensioni: 5/5

Con questo libro, Tabucchi sembra, prima di tutto, voler tributare un grande atto d'amore nei confronti del Portogallo. In effetti, dopo questa lettura, vien subito voglia di partire per Lisbona a ricercare le vie, le piazze e i caffè frequentati dal protagonista. Scrittura scorrevole e gradevolissima, storia un po' triste ma avvincente, protagonisti ben delineati. Per me un piccolo capolavoro.

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nanni
Recensioni: 4/5

Libro interessante, con lettura gradevole. Ha il taglio del racconto per la brevità, ma la possente struttura del romanzo per l'intensità e l'ambientazione.

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Voce della critica


recensione di Coletti, V., L'Indice 1994, n. 5
(recensione pubblicata per l'edizione del 1994)

Il dottor Pereira è un giornalista di Lisbona. Dirige la pagina culturale di un modesto giornale di regime nel Portogallo salazarista della fine degli anni trenta. Della realtà non gli interessa più nulla; dialoga col ritratto della moglie morta; scrive o pensa di scrivere necrologi di grandi autori; traduce testi altrui. Ma, un giorno, assume un collaboratore, Monteiro Rossi, un bizzarro giovane che, anche per la suggestione di Marta, la sua ragazza, fa politica clandestina e attiva tra gli antifascisti. Poco dopo, conosce il dottor (Cardoso, un medico che vuole fuggire dal Portogallo asfissiato e mortificato dalla dittatura. La realtà rientra così nella vita del placido e disilluso Pereira e lui se ne lascia progressivamente, pacificamente coinvolgere, fino a solidarizzare con gli amici antisalazaristi e a dare ospitalità in casa propria a Monteiro Rossi braccato dalla polizia segreta. E anche se non riesce a proteggere il suo giovane amico, tosto scoperto e ucciso a manganellate, Pereira lo vendicherà, denunciandone apertamente l'assassinio in un articolo fatto uscire sul giornale, con una beffa al regime del paese, da cui se ne andrà senza rimpianti.
In questo romanzo salutiamo il ritorno, ad opera di uno dei più grandi tra i narratori contemporanei, di una tematica, se si può ancora usare la parola, più impegnata, meno letteraria e raffinata forse, ma anche più diretta, evidente e, in fin dei conti, più importante di quella da ultimo presente nei libri dello stesso Tabucchi e di tanti altri autori di questi anni. Il filtro del tempo, l'ambientazione anni trenta, i precisi e retrodatati contorni cronologici del racconto non ne impediscono infatti una lettura anche attuale o, per lo meno, lasciano intatto il fascino che i grandi motivi della politica, della libertà, della dignità esercitano, possono ancora esercitare in un bel romanzo. Peccato che a questa svolta verso la sostanza delle cose non faccia riscontro pieno e completo una parallela svolta nella scrittura, pur tanto diversa da quella abituale all'ultimo Tabucchi, ma ancora, temo, tentata di strizzare l'occhio agli addetti ai lavori della forma, a linguisti e narratologi, manipolatori vari del genere romanzo. Lo rivela il titolo, "Sostiene Pereira", che, ripetuto fino all'ossessione in tutto il libro, è anche il segno linguistico dominante della narrazione. È, o dovrebbe essere. Se un testo si svolge a partire da un: "tizio sostiene, afferma ecc.", infatti, occorre anche che esso, poi, sia orientato a svolgere tutto il tasso di ipoteticità che c'è in un fatto "sostenuto" e che quindi lo distanzi e discuta con altre ipotesi, lo interroghi con domande o, al limite, lo neghi clamorosamente. E, all'inizio, pare proprio che le cose stiano così. Il narratore-autore entra in dialogo col racconto del narratore-personaggio e avanza ipotesi, supposizioni, interloquisce: "Pare che Pereira stesse in redazione... Perché? Questo a Pereira è impossibile dirlo. Sarà perché suo padre..., sarà perché sua moglie..., sarà perché lui... ma il fatto è che..." si legge nei primi capitoli, quando il testo declina volentieri verso la subordinazione richiesta dal 'verbum opinandi', raddrizzata qua e là da affermazioni di cui il personaggio conserva tutta la responsabilità: "Sostiene Pereira che da principio si mise a leggere distrattamente l'articolo... Perché lo fece? Questo Pereira non è in grado di dirlo. Forse, perché quella rivista...., forse perché quel giorno..., o forse perché in quel momento... ma il fatto è che...". Poi, però, questo valore reale, non opzionale, del "sostiene Pereira" si perde o, perlomeno, il lettore lo smarrisce. La narrazione prende a svolgersi per frasi principali e passati remoti che non suggeriscono neppure alla lontana il dubbio del congiuntivo, la possibilità del condizionale, l'opinabilità dell'evento; si colloca in una netta, distaccata identità, allontanandosi, con la precisione ineluttabile dell'accaduto, dall'attualità, partecipe e ancora sgomenta, del testimone che rivive e "sostiene". Infine, il "[Pereira] sostiene" diventa un puro inciso ("Poi aprì la porta, sostiene"; "Pereira entrò in un caffè, sostiene, e ordin• un'acquavite") innocuo, neutro, senza riflessi formali nella disposizione del testo o della sua lingua; un inciampo che si potrebbe benissimo togliere senza che nulla venga a mancare nel libro. Perché Tabucchi, scrittore sorvegliato come pochi, abbia giocato con questo marchingegno (esibito al punto da diventare il titolo) senza poi, come avrebbe saputo fare benissimo (lo ha fatto benissimo in altre opere), disporre un'adeguata, conseguente strategia testuale, non so spiegarmi. Né riesco a convincermi che il verbo eponimo volesse essere solo un tic linguistico, una figura della ripetizione come il "beh pazienza" che il protagonista dice ogni volta che parla col ritratto della moglie o le molte limonate che beve durante il giorno; e non credo che il progressivo passaggio del valore di "sostiene" da quello dell'ipoteticità a quello della certezza, che, snaturandolo, lo assimila ai più diretti e tradizionali verbi e modi narrativi, sia figura di una fiducia progressivamente accordata dal romanziere al narratore personaggio. A ogni modo, il lettore non può fare a meno di interrogarsi su questo presente fasciato dal dubbio dell'opinabile, da questo segno tanto esposto, che sembra voler governare, orientare e segnare il testo intero e invece retrocede rapidamente a vistoso soprammobile stilistico e di fatto si defila, perdendo i propri originari connotati di affermazione decisa ma discutibile e lasciando libero campo a un passato accertato, ricostruito con esattezza, non più discusso evitato. Che sia la "morale" del libro, la "testimonianza" dichiarata nel sottotitolo, il suo modo di suggerire una lettura attualizzante?


recensione di Papuzzi, A., L'Indice 1994, n. 5

Quali ragioni spingono Pereira a una scelta che capovolge la sua vita? Perché un giornalista scrupoloso e avveduto, che conosce i trucchi del mestiere e che non nutre molte illusioni, promosso alla cultura dopo aver consumato una vita nella cronaca nera - "di lei mi fido, ha fatto il cronista per trent'anni", gli dice il direttore - manda tutto all'aria schierandosi dalla parte di un rivoluzionario? Perché Pereira non rimane tranquillo nel suo ufficio - "una squallida stanzetta", per carità, "dove ronzava un ventilatore asmatico e c'era sempre puzzo di fritto", però anche un porto franco, una nicchia appartata - a compilare la rubrica delle ricorrenze e a tradurre scrittori francesi, senza lode ma senza infamia, un intellettuale con ambizioni pari alle sue non eccelse qualità? Invece quest'uomo marginale, troppo grasso e sudato per il suo cuore malandato, consumatore impenitente di omelette fritte e limonate ghiacciate, vedovo di una moglie morta di tisi, avaro di sesso, senza figli, con un unico amico, si trasforma lentamente ma quasi invincibilmente, come se neppure dipendesse da lui, nell'eroe nostro malgrado che tutti una volta o l'altra vorremmo essere: il simbolo di un riscatto, tanto più lampante quanto meno prevedibile. Ma qual è la molla che fa di Pereira un uomo onesto fino all'esilio da quell'onest'uomo che era? In questo interrogativo è racchiuso il fascino dell'ultimo romanzo di Antonio Tabucchi.
È vero che siamo nell'estate del 1938, data sintomatica nella storia dell'Europa: l'estate in cui non si poté far finta di non vedere. È vero che il Portogallo del dittatore Salazar appoggia la crociata franchista contro la repubblica spagnola. È vero che Il "Lisboa", il giornale di Pereira, ignora il massacro di un carrettiere socialista e dedica invece la prima pagina "allo yacht più lussuoso del mondo". È vero che Pereira parla alla moglie in fotografia del figlio che non hanno avuto e si sorprende a riflettere sulla morte e sulla resurrezione dei corpi che non desidera. Ma è anche vero che Pereira non si è mai occupato di politica. Diffida della politica come di qualcosa di malsano e pericoloso: "Oh, fece Pereira, la mia gioventù se n'è andata da un pezzo, quanto alla politica, a parte che non me ne interesso molto, non mi piacciono le persone fanatiche, mi pare che il mondo sia pieno di fanatici". Ed è anche vero che Pereira conosce e applica a menadito le regole del gioco, per cui quando Monteiro Rossi, il giovane intellettuale che si è incautamente scelto come aiuto, gli porta un articoletto su Garc¡a Lorca, lui non esita a cestinarglielo: "Eh, no, trovò la forza di dire Pereira, niente Garc¡a Lorca, per favore, ci sono troppi aspetti della sua vita e della sua morte che non si addicono a un giornale come il 'Lisboa', non so se lei si rende conto...".
Mettiamola così: Pereira non avrebbe alcuna ragione per entrare in conflitto con la direzione del giornale. Non è un oppresso, non è un ribelle, è un cattolico che crede nella comunione delle anime. E questo spiega il titolo del libro, l'inciso ricorrente nella narrazione su cui tutti i critici si sono interrogati: "Sostiene Pereira". Quel sostiene è una difesa, una giustificazione, di fronte a un'inevitabile e attualissima obiezione, che potremmo condensare nel fatidico: chi te l'ha fatto fare? Il fatto è che Pereira è un giornalista. E i giornalisti hanno, o avrebbero, delle regole etiche da osservare, di cui vanno persino fieri: "Io non dipendo dal mio direttore nelle mie scelte letterarie", dice piccato Pereira al suo Monteiro Rossi. "La pagina culturale la dirigo io e io scelgo gli scrittori che mi interessano, perciò decido di affidarle il compito e le lascio campo libero, avrei voluto suggerirle Bernanos e Mauriac, perché mi piacciono, ma a questo punto non decido niente, a lei la decisione". A queste regole i giornalisti possono crederci o non crederci. I più non ci credono. Ma Pereira è fra i meno.
Non avesse questo neo, non fosse così individualista, sarebbe una perfetta riproduzione di tanti giornalisti giunti alla fine di una mediocre e onorata carriera: scettici ma scrupolosi, fedeli al mestiere anche se disillusi, contemporaneamente incapaci di negare la propria routiniera professionalità ma anche di ribellarsi ai diktat del vertice. Quante volte ricorda didatticamente a Monteiro Rossi che si deve scrivere con le ragioni dell'intelligenza: ''Altrimenti, se scrive con le ragioni del cuore, lei andrà incontro a grandi complicazioni". Lasci perdere Lorca e Ma rinetti , Majakovskij e D'Annunzio, gli dice infatti. Scriva piuttosto su Mauriac e Bernanos, sull'anima e sulla morte.
Però gli è rimasto un senso della dignità: gli sembra che oltre certi limiti un giornalista non possa compromettersi con le sottintese esigenze del giornale e del potere. Che cosa fare per esempio quando anche i cattolici Mauriac e Bernanos prendono posizione contro il franchismo? L'informazione culturale si rivela una trappola: in apparenza un terreno neutrale, sgombro dalla battaglia politica; in realtà un mondo in cui è perfino più difficile truccare le carte. Ma probabilmente l'autore ha voluto soprattutto farci capire che non ci sono angoli in cui un giornalista possa fingere di non essere un giornalista.
Ciò che Tabucchi mette in scena nelle duecento pagine di "Sostiene Pereira" è, in verità, un pentimento: "sento il bisogno di pentirmi, come se io fossi un'altra persona e non il Pereira che ha sempre fatto il giornalista", dice Pereira al medico Cardoso, che è la levatrice del ridestarsi della sua coscienza. Cucita in un tessuto narrativo animato da una specie di pietas - per personaggi che galleggiano come possono in quell'estate portoghese carica di afose minacce - il romanzo ci offre una deliziosa intuizione: la capacità di trasformare i fatti in notizie, che è l'arte del giornalista, la sua vocazione a sostituire alla realtà la rappresentazione della realtà, sono come un diaframma che lo spinge sempre più lontano dalle cose di cui scrive. Manipolatore di parole che gli servono per riprodursi, la vera etica del giornalista è un pentimento che gli consenta di tornare a contatto con il reale, sostiene Pereira.

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Conosci l'autore

Antonio Tabucchi

1943, Pisa

Scrittore italiano, autore di romanzi, racconti, saggi, testi teatrali. Considerato una delle voci più rappresentative della letteratura europea, i suoi testi sono tradotti in tutto il mondo. «Tabucchi ci ha raccontato – come lui nessuno – quando il mondo accelera o decelera, quando il mondo si stanca.» Alberto RolloDurante gli anni dell'università viaggia per tutta Europa sulle tracce degli autori conosciuti attraverso la biblioteca dello zio materno. In uno di questi viaggi, a Parigi, trova su una bancarella, firmato con il nome di Álvaro de Campos, uno degli eteronimi del poeta portoghese Fernando Pessoa, il poema "Tabacaria", nella traduzione francese di Pierre Hourcade. Da allora Pessoa sarà per più...

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