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Dettagli

3
1993
5 aprile 1993
266 p.
9788842032519

Voce della critica

DAHRENDORF, RALF, Per un nuovo liberalismo, Laterza, 1988
(recensione pubblicata per l'edizione del 1988)

DAHRENDORF, RALF, Il conflitto sociale nella modernità, Laterza, 1989
recensione di Zincone, G., L'Indice 1989, n. 8

"Vengo da una famiglia piuttosto pratica che è sempre stata attiva in politica. Io ho scelto la strada della ricerca scientifica, ma non ho potuto fare a meno di provare anche il tipo di vita dei miei". Così iniziava un'intervista, rilasciata alcuni anni fa da Ralf Dahrendorf a Renzo Cianfanelli, e pubblicata nel numero 90 di "Biblioteca della Libertà".
Dahrendorf non si definisce facilmente. È un autore di classici del pensiero sociologico, come "Classe e conflitto di classe" o la raccolta di saggi "Uscire dall'Utopia". È un personaggio politico: un imprudente attivista che finisce giovanissimo nelle carceri naziste nel 1944, che si iscrive - per tradizione familiare - al partito socialdemocratico nel 1947, ma passa per vocazione al partito liberale nel 1967. Nel 1969 è capo di gabinetto del ministro degli esteri Scheel, l'anno successivo è commissario della Comunità europea in rappresentanza della Germania. È un'autorità accademica: dal 1974 al 1984 dirige la London School of Economics, la lascia per guidare la ricca fondazione del partito liberale tedesco, poi ritorna all'università di Costanza, va quindi negli Stati Uniti, dove per due anni fa ricerca presso la Russel Sage Fundation di New York, torna infine in Inghilterra, a Oxford, dove oggi è rettore del Saint Anthony's College. A Cianfanelli che gli chiedeva se lo caratterizzasse meglio l'attributo di studioso, quello di saggista o quello di politico rispondeva che la sua specificità consisteva nel "muoversi ai confini".
Il muoversi ai confini, per Dahrendorf, va al di là della dimensione professionale: è uno stile di vita. Sta ai confini tra liberalismo e socialismo, tra cultura tedesca e anglosassone, tra attivismo politico e impegno scientifico. "La libertà che cambia", "Al di là delle crisi", Pensare e fare politica" sono tutti lavori di confine tra politica e ricerca. I suoi due ultimi libri, di cui si parla in questo articolo, sono invece letterariamente più specializzati: trattano entrambi dello stesso tema, ma il primo è piuttosto un saggio politico, il secondo è piuttosto un lavoro di ricerca. Lo stare ai confini torna, però, anche in queste due opere: torna nella collocazione ideologica, che è poi la stessa dei lavori precedenti. Potremmo definirla come un radicalismo centripeto, un'ostilità estrema alle soluzioni estreme, che sono giudicate pericolosamente rudimentali. Inoltre, ma si potrebbe anche dire infatti, da buon liberale kentiano con forti innesti anglosassoni Dahrendorf crede nelle regole: nelle basi contrattuali della convivenza politica, nella 'rule of law', nella positività del conflitto politico e sociale quando sia strutturato e organizzato, nella necessità di principi etici, di stili di vita codificati senza i quali non vi sono opportunità reali su cui indirizzare una scelta civile. Lo stare al confine tra liberalismo e socialismo, l'impegno etico, l'amore per le procedure e le regole, il radicalismo centripeto son tutti presenti nei suoi libri degli ultimi anni, compresi i due di cui parliamo.
"Un cittadino totale" aveva messo in guardia contro le illusioni della partecipazione e le realtà della mobilitazione dall'alto, delle assemblee governate da capi più o meno carismatici.
"La libertà che cambia" aveva evidenziato il fatto che per scegliere dobbiamo avere di fronte delle opzioni strutturate, che occorrono delle legature, dei vincoli e delle direttive al comportamento umano perché sia praticamente possibile l'azione e la scelta. "Al di là delle crisi" aveva individuato in tutti i partiti di governo (incluso il suo), nell'indistinta palude alla sfibrata ricerca di un consenso troppo ampio, definito come socialdemocratico, la responsabilità di un'espansione irrazionale e indiscriminata dello stato sociale. Ma - allo stesso tempo - quel libro iniziava a guardare - con sospetto al thatcherismo, alla rincorsa dell'efficienza giapponese, all'indifferenza per i costi da pagare, volendo imitare il modello nipponico, in termini di qualità della vita e di libertà individuale.
L'attacco al radicalismo conservatore torna rinforzato negli ultimi due libri. La loro tesi principale è, infatti, che la linea Reagan e ancor più quella Thatcher siano errate. Non basta liberare gli imprenditori da vincoli e impegni, non basta rilanciare la produzione. Bisogna imporre regole distributive se non vogliamo che si approfondisca il fossato tra cittadini protetti ed esclusi. Non bastano le 'provisions', la produzione di beni e la disponibilità di servizi servono gli 'entitlements', i diritti, titoli a ricevere assegnazioni di 'provisions'. Che una società sia capace di produrre beni non implica benessere diffuso. Si possono avere gli scaffali dei negozi pieni e una parte della popolazione affamata e, viceversa, si possono avere tutti i portafogli pieni, ma gli scaffali vuoti. 'Entitlements' e 'provisions' sono due dimensioni diverse: nessuna di per sé sufficiente. E questo vale anche nei paesi economicamente avanzati come i nostri. Utilizzando il concetto di "cittadinanza", coniato dal sociologo inglese Marshall trent'anni or sono, Dahrendorf osserva che i membri delle nostre comunità godono di pacchetti di diritti che sono non solo civili e politici, ma anche sociali, possiedono, perciò, anche titoli di accesso al benessere comune. Ma la dimensione e la qualità del contenuto dei pacchetti che i singoli cittadini si trovano in mano variano notevolmente. L'elemento che condiziona di più questa varianza è il lavoro.
"Il lavoro salariato, di cui c'è sempre stata abbondanza, è diventato un bene scarso". Ma, fintanto che esso rappresenta una variabile cruciale nel condizionare la scansione comunemente accettata dei ritmi quotidiani, la capacità di acquistare beni sul mercato, l'accesso al 'welfare' e persino l'autostima, la distinzione tra chi ha lavoro e chi non ce l'ha "è insopportabile". D'altra parte, l'occupazione da sola non dà garanzie sufficienti. "Le società si spaccano tra una maggioranza di coloro che hanno un posto di lavoro e lo difendono e una minoranza di coloro che rimangono fuori (disoccupazione)". Ma le società si spaccano pure "fra quelli che hanno posti di lavoro sicuri e ben retribuiti e quelli con posti insicuri e mal pagati (povertà)". Quindi non basta togliere vincoli ai datori di lavoro e invogliarli a produrre, come non basta la retorica sindacale del diritto al lavoro.
Gli americani hanno seguito la prima via, quella della flessibilità dei salari in basso e della precarietà del posto di lavoro: hanno sconfitto la disoccupazione, ma non la povertà. I sindacati europei hanno declamato il diritto al lavoro, ma hanno tenuto duro sui gruppi protetti dei già occupati, per loro hanno ottenuto incrementi salariali, diminuzioni dell'orario, inamovibilità nella sede e nella mansione, ed hanno così aumentato il benessere della maggioranza e la povertà degli esclusi. I sindacati sono stati parte "di quella società ufficiale che emargina".
Né gli americani, n‚ gli europei hanno evitato, dunque, il costituirsi di una sottoclasse di emarginati. Ma, se gli europei vogliono soluzioni soddisfacenti, è inutile che pensino ad importarle dall'estero: n‚ la via americana delle diminuzioni salariali, n‚ quella giapponese del doppio mercato del lavoro e dei ritmi frenetici costituiscono esempi allettanti. La via europea deve mirare a conservare una certa qualità della vita e a fare sì che tutti i cittadini ne siano partecipi. È una strategia dolorosa. È ovvio, infatti, che la maggioranza protetta deve cedere vantaggi a favore della minoranza emarginata. Questo significa stipulare un nuovo contratto sociale. Bisognerà coerentemente varare nuove politiche del lavoro: 'in primis' la diminuzione dell'orario di lavoro in cambio di nuova occupazione, poi il collegamento tra retribuzione e produttività, infine una certa mobilità. Ma tutto questo non è sufficiente. Occorre pensare ad uno strumento che protegga dalla povertà le fasce comunque disoccupate. Dahrendorf lo individua nel reddito minimo garantito. Non è una terapia risolutiva, ma è il meglio che si può pensare oggi. "Né per la nuova disoccupazione, n‚ per la nuova povertà esiste una soluzione bella e pronta. Neanche il reddito minimo fornisce una simile soluzione. Ma tanto la nuova disoccupazione quanto la nuova povertà toccano questioni alle quali il reddito minimo darebbe una risposta tendenzialmente importante e, a mio parere, giusta". Così scrive Dahrendorf in "Per un nuovo liberalismo". E in "A New Social Contract" rafforza il suggerimento che si debba puntare su procedure e istituti innovativi: chi considera il termine liberale come sinonimo di "lassismo nelle regole e nelle norme, in genere, non potrebbe commettere, in nome della libertà, un errore più grande". Al contrario, le società contemporanee hanno più che mai bisogno di un contratto sociale, di nuove regole che definiscano i diritti di cittadinanza. Se è vero che non si possono dare a tutti le stesse 'provisions', che, per motivi di costo e di equità, i livelli di vita degli individui non potranno essere mai determinati soltanto dagli 'entitlements' dello stato sociale, questi diritti omogenei dovranno però offrire 'una base comune'. E la consistenza di questa base comune non può restare indeterminata perché lì sta l'unico argine possibile contro l'estensione e la degradazione della sottoclasse. È solo così che i diritti di cittadinanza possono "far fronte al nuovo devastante assalto del privilegio". Il liberalsocialista Dahrendorf, in "The New Social Contract", accusa Craxi di thatcherismo. Forse per questo oggi, piace tanto ai comunisti italiani. Piace anche perché non sanno riconoscersi in quella maggioranza sindacale che ha difeso e difende i privilegi dei lavoratori occupati, perché rifiutano di chiedersi come mai hanno ottenuto così pochi consensi proprio nella sottoclasse italiana, quella dei disoccupati meridionali. Del resto Dahrendorf è oggetto di pressanti inviti anche da parte degli imprenditori italiani. Piace loro perché non sanno riconoscersi nei fautori di quel liberalismo sregolato, della 'deregulation' come prima politica del lavoro che sono il principale oggetto polemico dell'autore. La popolarità di Dahrendorf, in Italia, sta dunque nella nostra capacità di selezionare le critiche che muovergli altri da quelle che muove a noi stessi. A proposito, nell'introduzione a "Per un nuovo liberalismo" c'è una critica feroce dell'amore degli accademici per l'inutile e l'irrilevante. Ci auguriamo di imparare presto l'arte difficile dell'autocritica. La rimozione delle parti scomode, infatti, non può durare a lungo e prima o poi cominceremmo a trovare Dahrendorf tremendamente inopportuno.

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