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Neve - Orhan Pamuk - copertina

Descrizione


Il poeta Ka, dopo dodici anni di esilio in Germania, torna a Istanbul. Dopo pochi giorni parte alla volta di una città della provincia anatolica, Kars, dove fortissime sono le contraddizioni fra la Turchia moderna e laica e le sue profonde radici islamiche. Da qualche tempo, infatti, nella città dilaga una vera e propria epidemia di suicidi: a togliersi la vita sono studentesse universitarie cui viene impedito di indossare il velo in aula che si uccidono per difendere i loro ideali contro le imposizioni dello Stato laico. Inviato da un quotidiano per intervistare parenti e amici delle ragazze, il poeta rimane affascinato da questa città di provincia triste e remota, un tempo prosperosa città commerciale, oggi avamposto dell'integralismo islamico...
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Dettagli

2004
15 giugno 2004
468 p., Rilegato
9788806170042

Valutazioni e recensioni

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Elena
Recensioni: 1/5

E' il primo libro che leggo di Pamuk e credo che sarà anche l'ultimo! Noiosissimo.

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Kiko1983
Recensioni: 4/5

...un libro non a livello di "Istanbul", ma sicuramente più impegnato. In fin dei conti riuscito l'ambizioso tentativo di mischiare "politica", estetica, poesia e sentimento...ne risente, tuttavia, la scorrevolezza e l'organicità dell'opera. Comunque...un buon lavoro !!

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mario farinelli
Recensioni: 5/5

Sono in parte concorde con la recensione del signor Salluzzi. La bellezza del romanzo è la sua attualità. I problemi che Pamuk solleva sono problemi reali , dove si da più importanza alla forma che alla sostanza, dove non si rispetta più l'idea dell'altro ma lo si considera un nemico, dove il dialogo è superato dal litigio. La televisione è responsabile di ciò. L'esempio lo da Blu, lo danno le ragazze velate "lo fanno per moda", lo da l'assassino del rettore. Oggi basta apparire ,con o senza velo. Basta urlare , uccidere per essere ascoltati. Ka in questo mondo è un estraneo come lo è la neve, un onesto in un mondo di disonesti, un illuso ,una persona che crede alla forza della poesia.Morirà e con lui muore tutta quella gente che crede nel dialogo soppraffatta dai politici che amano la guerra.

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Voce della critica

La neve (Kar) volteggia e ricade sui passi di un breve soggiorno del protagonista Ka in Kars, nevralgica località di frontiera della Turchia orientale. Kars è raggiunta da occidente, attraverso il prisma che manifesta la propria debolezza in contrasto con la vibrata percezione da parte di Orhan Pamuk dei fenomeni sociali e del diffuso squallore. La scrittura si mimetizza nella lente segnata da linee radiali, e opportuno - sembra dirci l'esemplare scrittore - sarebbe magari correre il rischio di uno sguardo con l'occhio nella sua nudità, esposto sia agli abbagli, sia alla correttiva lucidità.

Due i viaggiatori, sfasati e magistralmente raccordati: Ka, poeta, e l'amico Orhan, narratore sulle sue tracce. L'autore li guida sulla falsariga di appunti e commentari fissati da Ka in quaderni ritrovati da Orhan a Francoforte. Qui il poeta era vissuto in esilio per dodici anni ed era tornato a vivere per altri quattro, dopo la missione di quattro giorni a Kars: prima di essere ucciso nei pressi della Kaiserstrasse, sacrificato alla morte annunciata.

Giunge a Kars coperta di neve, l'esule Ka, ritornato a Istanbul da Francoforte e seguito da Orhan sul filo dei suoi pensieri, scaturiti e registrati in provincia, affidati a quei quaderni. L'inchiostro si coagula in uno schema inatteso: l'armonia misteriosa assunta dalle poesie, la simmetria dei testi, stupisce il poeta, il quale colloca i titoli dei versi all'incrocio e sulle estremità biforcute dei tre assi (logica, immaginazione/sogno, memoria) di un fiocco di neve. Emergenti con impeto, o sintomi immaturi, quei messaggi inviati da Dio sospingono Ka a trascrivere di getto su un quaderno verde il dettato della benedetta, latitante ispirazione che dopo anni torna a visitarlo assidua a Kars. Ma delle poesie conosciamo solo i titoli, l'apparato, le circostanze: quel quaderno verde è infatti irreperibile (si gioca al manoscritto ritrovato e a nascondino).

Pretesto al viaggio è un servizio affidato a Ka, precario cronista del giornale "Cumhuriyet" (la repubblica), sull'assassinio del sindaco di quella città, sul clima alla vigilia delle elezioni municipali e su una "epidemia" di suicidi commessi da molte ragazze locali. È una ricognizione, in realtà, allo scopo di riavvicinarsi e imprimere tratti più definiti a una donna turca a lungo vagheggiata: quasi la bellissima Ipek (seta), compagna di studi e lotte sul Bosforo, rientrata a Kars, sposata e divorziata, padrona col padre e la sorella Kadife (velluto) dell'albergo Palazzo delle nevi, dove alloggia il poeta. A lei Ka proporrà, alla fine invano, di sposarsi e andare insieme a Francoforte, illuso da una felicità che lo spaventa elusiva.

Ipek è donna sognata, benché mai con l'intensità degna del romantico Turgenev, o di Roberta di Peppino di Capri, aleggiante nelle strade confluenti nel gran viale Kâzìm Karabekir. Sono alcuni dei parametri fluttuanti cui rinvia Pamuk, consapevole del livello diseguale dei confronti instaurati, dei tenori di avviliti aneliti maceranti i fuorusciti nel sapore di fallimento. Del resto Ka - onesto borghese, schivo e perbene, avvolto in un cappotto cinerino acquistato ai magazzini Kaufhof - è tipo sempre triste come i protagonisti di Čechov. Né mancano cenni a Puškin, dunque e non per caso ai russi, alla passata occupazione zarista della zona, testimoniata da palazzi signorili: gemme sulla pianta urbanistica una volta pulsante di traffici ravvivati dalla presenza armena - ne restano i fantasmi affacciati alle finestre di case desolate - che irrigava e popolava quelle terre. Con il passaggio dai sultani alla Repubblica di Turchia, l'edificazione nazionale turgida d'ideali mancati sommerge le tessere scheggiate del mosaico.

La finzione del viaggio è rinnovato espediente tecnico, filosofico, spoglio dell'ambizione antica a raggiungere il nucleo di qualche verità superiore. L'intenzione pare quella di agitare con densi spettri l'orizzonte proprio e del lettore, allargandolo alla città che risponde al luogo, al suono funzionale di Kars: rimossa, così lontana dai centri che contano, eppur epicentro di sanguinose contrapposizioni. Proiezioni di idee su schermi, quadri, platee trapassate dallo sguardo, preoccupato ben più che onnisciente, di chi affronta il dramma vissuto nell'universo musulmano dai singoli personaggi, resi nella loro individualità variopinta (chi ha capelli rossi e occhi color lapislazzulo, chi concepisce il primo romanzo islamico di fantascienza: si nega così il grigiore monolitico ai gruppi, alle masse); persone vive e sul serio ammazzate dentro lo spettacolo allestito al Teatro nazionale da una imbolsita compagnia di teatranti, raccattati cascami di fulgida parabola recante lumi lugubri alla periferia oscurantista. "Patria o velo", recita il drastico dramma repubblicano di una donna al velo ribelle. Avvampa quel simbolo bruciato sul palco dall'attrice, si suggestionano gli spettatori, s'infiammano indignati gli studenti del liceo religioso. Si spara sulle incredule persone in sala. Le traiettorie delle pallottole sono rassegna delle vite spente, agghiacciate dal terrore a Kars. Colpo di scena, colpi di mitra, colpo di stato, con intervento dell'esercito e stato d'assedio: il male minore, usa dirsi, inquieti, tutelati dal regime militare.

È rapida la sequenza dei quadri esondanti, delle cornici divelte. Tal quale impressiona Ka nella sua inchiesta la rapidità dello scorrere da vita a morte delle ragazze suicide. Belle, votate a reimpadronirsi del proprio corpo, queste donne giovani si sentono protette giusto dal velo contro ulteriori violazioni sociali, pressioni usate in forza di principi laici, e a quel gesto blasfemo esse conferiscono la valenza di rivendicazione estrema del civico possesso di sé. Riconoscimento, con sottaciuto, reversibile auspicio: la bandiera ostentata dell'islam politico non divenga cortina greve per chi vuole scoprirsi, aprirsi.

A fronte dei fondamentalismi offesi e dell'arroganza dell'Ovest, è a disagio Pamuk a Est, da estimatore di un pensiero critico sviluppato e ora stravolto a occidente, sospeso e giudicato con sospetto nel suo Oriente, esattamente da coloro che ebbero a introdurre l'occidentalizzazione censurando la tradizione. Nella pericolosa opposizione, istituita in modo disperato e artificioso, fra il proprio culto dello spirito e il condannato materialismo ateo altrui, gli islamisti si chiudono orgogliosi nel complesso d'inferiorità volta a superiorità, nella combattiva spiritualità comunitaria; si etnicizza esclusivo il concetto dell'essere supremo e unico, chiamato con voce araba (non necessariamente "islamica", si badi) Allah. Voce mantenuta inalterata in italiano, laddove non troverei stonato far corrispondere al "loro" Allah almeno il "nostro" nome di Dio.

Tornando al quaderno verde: a che l'eventuale rimpianto per la sottrazione provocatoria? I versi involati lasciano comunque il contesto dettagliato, il contenuto, la forma: all'ombra candida dell'idea, del suono di un fiocco di neve. E un timbro, inevitabilmente disciolto in traduzione, fatti salvi i nomi propri. Dico l'allitterazione che nell'originale batte e affonda in ka-, e garantisce la tenuta dei piani, dei tempi radiali di Kar, neve.

G. Bellingeri

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Orhan Pamuk

1952, Istanbul

Scrittore turco, Premio Nobel per la letteratura nel 2006. Abbandonati gli studi di architettura, esordisce con il romanzo Il signor Cevdet e i suoi figli (1982), affresco di tre generazioni ambientato nel quartiere natio di Nisantasi, con il quale ottiene grande successo; cui sono seguiti La casa del silenzio (1983) e Il castello bianco (1985), nei quali l’incontro tra un giovane veneziano e uno studioso ottomano è pretesto per affrontare quello, problematico e conflittuale, tra Oriente e Occidente. Lo stesso tema ricorre, declinato in modi diversi, anche nei più recenti Il mio nome è rosso (1998, premio Grinzane) e Neve (2002), dai risvolti più marcatamente politici. Istanbul (2003) ha affascinato per l’abile tessitura che cuce...

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